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Tunisia

Tunisia

Così vicina, da sentire i suoi battiti del cuore..

Departure-icon 09/08/2012 - Arrive-icon 19/08/2012 2

Sempre guardata con diffidenza, un po’ troppo vicina all’Italia, invasa da alberghi e villaggi disseminati su tutta la costa, quest’anno, per svariati motivi l’abbiamo scelta come meta per le nostre vacanze: Tunisia. L’anno ideale, essendo passati solo due mesi dal termine della ‘primavera araba’.  Preparativi semplici e partenza in treno alle 14.08, primo pomeriggio per arrivare a Malpensa. Siamo così in ritardo che quasi perdiamo l’aereo per colpa dello shuttle bus. Sette kg di bagagli a testa e calzoncini corti. Sarà una vacanza itinerante, ma con il desiderio, di tanto in tanto di riposarsi adagiati su una sdraio, ovunque essa si trovi. L’anno è stato difficile, non è passato un mese dalla perdita di mio padre e di una cara amica. Anche Vale ha avuto qualche mese difficile, tanto da rendere questa evasione una chimera atta alla sopravvivenza delle specie. Solo un paio d’ore circa di volo, Tunisair, e sbarchiamo all’aeroporto Carthage presso Tunisi. Il viaggio ci ha visti divisi, Vale è seduto vicino ad una famiglia di senegalesi al sapore d’Africa, io invece qualche fila indietro, vicino ad una ragazza tirolese sposata ad un tunisino che portava per la prima volta la piccola in Tunisia, a cui per cortesia, ho dovuto espletare le suddette mansioni: giullare, vassoio porta cibo, reggi biberon, compilatore del visto in tre moduli, e dulcis in fundo, porta piano basculante (rotto) mentre la madre si nutriva.

È quasi mezzanotte, fuori il profumo del mare lambisce le narici, chissà se è l’aria di libertà post-primavera araba quella che si respira, proprio qui, nel paese dove tutto ebbe inizio qualche mese fa. Nel parcheggio affollato una moltitudine di taxisti si contendono la nostra trasferta, quasi non dipendesse da noi la scelta (come spesso accade in Arabilandia), perché comunque se ne dica, in Tunisia vigeva e speriamo ci sia ancora, una costituzione liberista, dettata da regole e diritti, uno (se non l’unico) paese democratico della mezzaluna. Il taxi sfreccia per circa un’oretta e mezza attraverso le buie strade costiere, sul suo contachilometri lentamente avanza il counter che già riporta la cifra di 571.000 km, per infilarsi poi nell’entroterra e condurci infine ad Hammamet, prima tappa. Ogni tre minuti mi viene chiesto il nome dell’albergo a cui rispondo sempre picche (non abbiamo un albergo) quasi fosse colto da amnesia cronica. Per i 75 km che ci separano dalla metà, sborsiamo 85 dinar. Di notte, la città sembra deserta, scegliamo un megalbergo, dall’esterno e al buio sembra molto carino, che si affaccia su una spiaggia con ombrelloni in paglia. All’interno una polverosa reception, mette subito dei dubbi sulla nostra scelta tanto che il Lemure, propone un compromesso: ho questo crivellato ed abbandonato albergo ha una camera vista mare disponibile, o si cambia. Il Bellevue è indubbiamente vuoto, si trova in rue Assad Ibn el Furat.

Quest’anno il ramadan copre ancora parte del mese di agosto, per cui le famiglie si riuniscono nelle loro case, lasciando gli alberghi semivuoti. Anche il turismo sembra aver cambiato mete, per le sopracitate motivazioni politiche. Vista mare, una cameretta deliziosa con balconcino, tutta dipinta di azzurro cielo, spugnato (piace no lo spugnato). Il cielo è un manto stellato, laggiù dove il mare si fonde con l’orizzonte misterioso. Il Lemure si getta senza quasi spogliarsi sotto alla doccia, al terzo tentativo si decide, dopo aver pensato che forse non era poi così sporco… Solitamente a casa ne fa almeno due o tre al giorno, quando avverte una situazione di carenza igienica tutt’intorno, potrebbero tranquillamente raddoppiare. Sistemo i bagagli, doccia e uscita zampettante alla ricerca di un ristorante. Il Chez Achour, in rue Belhauane sembra fare al caso nostro. Una bianca recinzione che si affaccia su una rientranza della Corniche principale, avvolta da buganville e gelsomini. Un portone che apre su un cortile interno affollato, illuminato a grande maggioranza da candele. Si cena con pesce, vinello e in compagnia di mici che reclamano la loro parte. Piacevole distesa serata. Siamo in Tunisia, novelli Annibale, Scipione e Barca. Al-isab, mhyn fadlak, ed arriva il conto. Per pagare usiamo la carda di credito, e come se decenni di evoluzione tecnologica avessero snobbato la moderna Tunisia, ci si palesa un garçon con uno strumento obsoleto per ricalcare la carta. Dubbi, molti, ma vabbè… Quattro passi in direzione albergo e sostiamo per due the alla menta coi pinoli e fumata di narghilè alla mela, in un locale con giardino, sulla Corniche. Ottima idea, al fresco marino, bimbi sorridenti si avvicinano proponendo mazzetti di gelsomino infilati su stecchi di legno, piccoli profumatissimi bouquet e collane, sempre realizzate con lo stesso fiore.

È abitudine qui in Tunisia, indossarne un rametto sull’orecchio, che cela una velata richiesta di apertura sociale (non ben chiara) in base a quale orecchio venga scelto per apporre l’aromatico richiamo. Verso l’albergo nelle buie strade, capitiamo in un vivace vicolo alle spalle dello stadio, dove gustiamo un po’ di movida locale. Prima notte in Tunisia, stanchi ma felici. Aprire gli occhi, essere svegliati dal sole che sorge e si riflette nel mare che lentamente risale verso il bagnasciuga, pochi rumori, un muezzin intona le parole del primo canto mattutino, breve, diluito tra gli sferzanti veicoli che corrono lungo la marittima, quel canto che stabilisce la fine dei bagordi notturni per riconsegnare gli osservanti credenti al digiuno diurno. Hammamet vestita di banco e drappeggiata di blu, si affaccia su una spiaggia soffice e di notevoli dimensioni. Colazione al bar dell’albergo, a base di muffin, caffè e latte ed un indissolubile cubetto di zucchero. Lo yogurt, Made in Kuwait, riporta data e mese, ma non l’anno di scadenza (probabilmente la pastorizzazione è avveduta durante il trasporto, una volta inserito il latte nel barattolo), calzoncini e via in acqua. Riposo, divertimento e mare. Una bellissima mattinata, il cui ricordo delle nostre ginocchia flesse sulla spiaggia mi dona un costante senso di sollievo (anche a distanza di tempo). Quando il sole inizia a tendere i suoi raggi sulla nostra pelle facendoli sembrare sferzate di cilicio intriso nell’aceto, ci rivestiamo e ci dirigiamo verso il centro passando per Av. Bourguiba. Ogni tunisini che padroneggia la nostra lingua o anche solo in francese, ci invita ad andare alla tomba del nostrano Craxi, nel cimitero cattolico che sorge sul mare, ma a tutti rispondiamo ‘jamais’ o più seccatamente neghiamo dicendo ‘Laha’… Quello che qui è stato certamente visto come un benefattore, in patria è stato un politico furfante. Nel centro cerchiamo un angolino dove mangiare, indisturbati, e soprattutto lontani dai procacciatori di clienti per i negozi di cugini, zii e nonni vari. Il Lemure acquista un cappello in paglia alla modica cifra di 40 dinari, equivalente all’acquisto di un merlot da 20 euro circa…  Al tavolo scopriamo che la sera prima un italiano residente in Tunisia, è stato macellato dal suo amante indigeno.

Vale passeggia per le vie muovendosi per evitare il contatto con le persone, sembra tarantolato. Ci dirigiamo alla stazione dei treni, soporifera e dismessa, dove l’orario non è ben chiaro, e le indicazioni del bigliettaio men che meno… Il treno arriva avvolto nel suo sferragliante fracasso, a carbone, fumante e puzzolente. Da esso pendono lamiere e parti metalliche, sembra reduce da un attacco dell’Afrika Korps di Rommel. Siamo in piedi tra uno scomparso e l’altro, due ore e mezza ci separano da Maadya, un viaggio in un paesaggio stupendo, lunare, da far-west, tra ulivi e villaggi. Il pensiero che se mai dovesse fermarsi in mezzo a questa brughiera, potremmo esser venduti già conciati dal caldo e cuciti nel souk delle borse, con apposto logo LV. Bersagliati dai sassi che si trovano sui binari, schegge impazzite contro il metallo, tanto da indurre il controllore ad accompagnarci altrove, visto la quantità di pericolosi proiettile lirici che entravano attraverso le porte (inesistenti) del treno. Vele se ne esce con un’altra delle sue: “il governo tunisino dovrebbe imporre la somministrazione obbligatoria dei deodoranti ascellari come per vaccini, richiamando la popolazione al rito dell’unzione e dell’abluzione, con richiamo ogni tre giorni…”.

Arrivo a Maadya, davvero bella a colpo d’occhio, sorge su uno sperone roccioso lanciato in un mare dipinto. L’albergo si chiama Medina, un ex abitazione trasformata in ryad, con cortile centrale e ampie e fresche camere, tra cui la nostra, situata al piano terra. Si trova in una piccola traversa di Rue des Fatimides, vicino all’Hammam Kebyr. Tutte le vie sono lastricate di marmo levigato, bianco e ben tenuto. Passeggiamo per la cittadina/bomboniera, nella speranza di trovare qualcosa da mangiare, ma nulla. Lo stravolgimento del governo dopo la primavera araba, ha portato una netta trasformazione della società tunisina, in direzione più osservante ed integralista.

Molti negozi o ristoranti, che fino a qualche tempo fa avrebbero chiuso un occhio sui non osservanti del ramadan, ora per terrore che la polizia possa interpretare il loro libertinismo come atteggiamento antigovernativo (da non dimenticare che l’attuale governo vorrebbe la legge coranica), non ci danno nulla, nemmeno da bere. Unico angolo tranquillo e nascosto, un piccolo bar su un terrazzamento roccioso che di getta nel mare, tra gli scogli, dove riusciamo a prendere delle patatine e due birre analcoliche. Richiederle sembra una fatica titanica, in quanto il ragazzo non capiva il termine ‘beer’ e me lo ha fatto ripetere almeno una decina di volte… Sembrava di assistere al teatro dell’assurdo, forse mi sfotteva, chissà. Dopo aver mangiato un paio di sacchetti di patatine e null’altro, ora potevamo finalmente dedicarci ad un bagno nel mare. L’insenatura tra gli scogli era raggiungibile attraverso una scala a pioli in legno e alcuni intagliati nella pietra, dove alcune ragazze entravano in acqua totalmente vestite. Bimbetti giocavano a palla e qualcuno di loro pescava. In particolare un ragazzino che aveva ricreato una sorta di nassa galleggiante con una bottiglia in PVC e un filo da pesca con esca. Su uno scoglio, in un secchiello c’erano le prove che quel congegno funzionava.

Quel posto era davvero una poesia, peccato solo per gli enormi e scomodi scogli, che causa la loro vertiginosa pendenza, ci hanno costretti a restar appesi con le mani per non finire in mare. Anche il mare era di un color turchese, quasi trasparente. Dopo circa due ore siamo risaliti, passeggiando attraverso il millenario cimitero a ridosso del vecchio porto fatimide e del rispettivo forte, con le sue tombe diroccate rivolte ad est. Un’aria davvero dismessa e semplice, la città pulita con i tendaggi delle terrazze da the sui piani alti che svolazzano coccolati dalla brezza marina, signori seduti intenti a fumarsi la shisha ed a giocare a qualcosa tipo dadi o scacchi. Il profumo della menta tutt’intorno rende questa passeggiata sul lastricato color avorio che riflette debolmente il calore, un vero piacere. Lampeggia ormai ad intermittenza un’idea, da giorni: un bell’hammam fatto come si deve. Vicino all’H.M. si trova l’Hammam Kebyr, una struttura non particolarmente bella e nemmeno lontanamente simile agli stessi sparsi per il medio oriente. È deserto, diamo gli unici clienti, (batteri da riempire uno stadio – Lemure dixit) per cui veniamo trattati con riguardo. Un massaggio sembra metter fine alle nostre giovani vite, un energumeno berbero ci strapazza come uova e ci fa scricchiolare le ossicine come grissini. Infine ci asperge e deterge con una spugnetta ruvida che per descriverla cito le nobili parole del Lemure “su quella spugna c’è depositato il DNA di tutte le razze presenti sulla terra; se finisse in mano aliena, potrebbero ripopolare un intero pianeta a nostra immagine e somiglianza”. Usciti dall’hammam, siamo tornati in camera.

Per cena scegliamo un locale molto carino, si chiama Lido, al pianoterra, una bella esplanade con tavoli in tovagliati di bianco che corrono lungo il marciapiede. Si trova in un angolo molto carino, in lontananza il rumore delle onde accarezza gli scogli, in questa cittadina meravigliosa. Insieme ad una caprese e a del fritto mare, ci scoliamo una bottiglia di Magon, un vino bianco de Mornag, davvero buono. Il vino picchia forte, la stanchezza fa il resto. Mi piacerebbe tanto tornare in camera, ma Vale vuole fare una passeggiata e perché no, magari fumarsi una shisha. Andiamo nella piazzetta principale, al Kyros, dove ci adagiamo spossatamente in un tavolino tra la chiassosa e variegata fauna. Io da subito, inizio a perdere i sensi, e collasso. Lemure descrive tale momento di imbarazzo così: zampettando e barcollando io e il Ghiro ciuccato ci mimetizziamo nella movida tunisina, sedendo ad uno dei tavoli centrali del Kyros, famoso locale di tendenza di Maadya. Un buon the, la shisha, e come per la festa di San Gennaro, il miracolo si compie: lo vedo barcollare, farfugliare, delirare e poi accasciarsi sulla sedia in uno stato di trance comatoso, interrotto da piccoli sussulti provocati dalla fumata di shisha. Incuriositi e divertiti dallo spettacolo, i bambini tunisini si avvicinano per guardare meglio per poi scappare dai loro genitori sghignazzando vistosamente. Umiliazione mista ad un senso di profonda solitudine mi assalgono e mi accompagnano fino in albergo. Chiudono la serata una gomitata sul naso al primo tentativo di avvicinamento al letto. Bessalama.

È mattina, presto, il sole troneggia già bello sicuro di sé, a mezzo cielo. Oggi da Maadya andremo a El Jam, l’antica città romana di Thydros, una località non molto distante da qui, che ospita il terzo anfiteatro romano in ordine di grandezza, e uno tra i meglio conservato al mondo. Giungiamo a destinazione mezzo louage (minibus) dopo 45 minuti di viaggio, ed una sosta in un parcheggio aperto dove una cinquantina di bus accesi, in attesa di clienti, hanno donato si nostri polmoni almeno un centimetro di piombo. Ci chiedono cinque dinar cadauno, ma io osservo quanto spendono gli altri (la metà) e consegno al l’assistente dell’autista una sola banconota da 5. Il conducente ha bofonchiato qualcosa, ma quello era il giusto. Punto. Arrivati a destinazione, in una bancarella di vecchi giornali Vale trova ed acquista una vecchia copia del National Geographic su cui compare la leggendaria immagine della bimba afghana dagli occhi azzurri, di etnia pasthun, immortalata a quel tempo, e circa vent’anni dopo. Siamo ora di fronte all’anfiteatro, fa strano vedere la perfetta ed identica copia del Colosseo a sessanta gradi, avvolto in un mantello ocraceo e soprattutto oziosi cammelli in riposo. Tutt’intorno una moltitudine di negozietti di antiquariato e gioielli berberi. Entriamo, qualche scalinata e siamo sugli spalti ombreggiati, tra le arcate, in un gioco incantevole di chiaroscuro, si scorge la cittadina. Siamo emozionati e molto felici, scattiamo foto come nipponici a Venezia, qualche piccola sosta e qualche sorsata di succo e siamo perfettamente sincronizzati con lo Zenith per la canicola di mezzodì. Una piccola parentesi per ricordare una grande eroina locale, la regina Dahya, meglio conosciuta come Khaina la ‘maga’, una berbera di religione giudaica, che si oppose alla penetrazione araba nel VI secolo d.C. e che resistette all’interno dell’arena per lungo tempo, beffandosi dei nemici, mostrando loro dall’alto, pesce fresco (che recuperava attraverso un tunnel sotterraneo che conduceva al mare) per così convincere gli assedianti che di fame, lei e i suoi guerrieri, non sarebbero morti.

Ci troviamo nel mezzo dell’arena, il cuoio capelluto scotta, ed io ho fatto dono a vale del mio turbante perché i sui capelli neri attirano il doppio dei raggi. Ecco, con l’aggiunta di quel dettaglio, sembra proprio un tunisino. Di blu vestito, con calzoni sarouel in tela, sandali e turbante bianco sembra un indigeno. Il colore della sua pelle è come le olive nere che ci servono negli aperò la sera, le taggiasche. È così, raggiunta la delirante temperatura che mi fa friggere le cervella, barcollo, ondeggio ed inizio a cantare in mezzo al palco. Canto Romagna Mia a braccia alzate, aggiungendo parole in francese ed arabo (proprio per non farsi capire, no?). La cittadina tutt’intorno lancia i suoi ultimi sibili prima di crollare nel torpore africano di una pennichella pomeridiana. A piedi raggiungiamo le Ville Romane, ovvero un’area in cui cono state trovate pavimentazioni a mosaico e strutture abitative di ricchi mercanti d’olio della zona. Qualche colonna, un albero desolato ed un delizioso e candido museo in cui intere pareti di mosaici mostrano Ulissi e Sirene, Didoni e stagioni, animali e città dell’impero. Nella villa, ingegnosi architetti hanno progettato tegole cilindriche che si incastrano una nell’altra, permettendo uno snodo modulare a colonna vertebrale, che, grazie alla cavità, creava refrigerio all’interno della domus. Verrebbe di provare anche a casa, serve il moke-up. Natlaab itneen, mhyn fadlak.

Via dalla villa, uscendo e girando a sinistra, ci ritroviamo a percorrere la stessa via di prima, con la simpatica scoperta di qualche negozio di casalinghi berberi. Felicissimo io, Vale un po’ meno, acquisto un enorme piatto di terracotta circonferenza 50 centimetri, atto alla cottura del kubz arabo, Vale lo chiama il ‘piatto roccia del triassico’ io lo scarrozzo felicemente, anche se ingombrante. Nel polveroso negozio, vale acquista una bottiglia di vetro per l’acqua, fatta a mano, leggermente irregolare, molto bella. Torniamo nella piazzetta antistante all’arena, dove curiosiamo all’interno di alcuni stipati, ombrosi e polverosi negozi. Vale me regala una piccola Mano di Fatima in argento (faddah yaad al-Fatyyma), sukram, ed una spugna marina per il bagno, come una grossa patata. In un ristorantino sulla esplanade pranziamo con insalata, omelette sotto ad un tendone luminoso, spendendo circa 25 dinar. Cerchiamo un louage per il ritorno, c’è un particolare desiderio di tuffarci in mare, abbiamo voglia della marittima Maadya, coi suoi colori così mediterranei e la pigra voluttà di un villaggio ancora non destato dal trambusto della modernità. Giunti a Maadya, ci tuffiamo un paio d’ore in mare, per poi salire al piano rialzato del il solito Kyros, un po’ kitsch, arredato con divani, cuscini e ottomane tutti differenti, con tendaggi gialli e una piacevole brezza che trascina velocemente il fumo della shisha e il profumo del the alla menta coi pinoli, facendoli volare in cielo.

Mi sembra tanto di stare a Tangeri, Essaouira o Alessandria, il comun denominatore di queste affascinanti città, il mare color turchese che si schianta sul bianco della calce e della pietra. Doccia e poi via alla ricerca del Neptune, un ristorante con terrazza nella costa nord di Maadya, un misto tra un boudoir ed un hotel, la cui chiassosa musica di un rap dj per strada, si mescola al rumore delle onde, particolarmente agitato quella sera. Vale chiede un cous cous, ma nulla, insistono nel rimarcare che bisogna ordinarlo prima, perché la preparazione è lunga, e in questa città non essendo il piatto forte, va ordinato… Mangiamo pesce e beviamo Ugni Blanc, squisito, profumato, di Jelloud. Mi oppongo di nuovo al giretto serale, sono così stanco da mirare la camera come unico obiettivo della mia esistenza. Crollo e non ricordo più nulla.

Partenza per Sfax, altra città costiera, per nulla interessante (L.P. docet, perché non crederle una volta tanto?) di cui ricordo il nome su una cartolina giunta a mia madre, quando ero piccolo con questo messaggio: Saluti da Sfax, tua Vanda. Vele scrive: quando chiedi indicazioni geografiche ai tunisini, puoi star tranquillo che la precisione satellitare ti porterà dritto dritto a destinazione, seppur con qualche chilometro di ‘margine’. E fu così che appena messo piede a Sfax, fummo costretti ad attraversare la medina a piedi. Reggendo la tunica come Virgilio tra le anime dannate, scoperto l’albergo dove il ragazzo della reception era intento a lavare i piedi nel lavandino di una camera, ci guarda perplesso alla richiesta di stanza più doccia. Feriti nell’orgoglio, rifiutiamo la stamberga, e ce ne andiamo dalla medina. Nel frattempo Paolo non trova nulla di meglio da fare che comprarsi un paio di zoccolo in legno e pneumatico riciclato. Un albergo truzzissimo in marmo e ceramica con profili in ottone ci accoglie, sfiniti dalla travagliata migrazione, con Wi-Fi e reggi-doccia. Facciamo bucato e stendiamo i panni come degli zingari a trastevere senza paura alcuna di sfoggiare tutte le nostre mutande alle altre camere. Pranzo in pieno ramadan in un super luxury hotel, il Tulipan, arredato in total white e color zabaione, con tovaglie e coprisedie, mega teiere traforate in terracotta, ed un minuetto barocco in loop… Cous cous finalmente ed una caprese per il Ghiro. Dopo mezz’ora, chiedo cortesemente che la melodia da corte degli Hanzollhern venga interrotta. Mettiamo fine all’agonia. Sfax è deserta e per nulla affascinante, a detta stessa dei tunisini, i suoi abitanti sono noiosi e troppo intenti a commerciare per occuparsi dell’estetica e del divertimento. Passeggiando non c’è nulla degno di nota, e l’unico bar che sembra esser aperto, ci serve due bevande pregandoci di berle ‘avec moderation’ celandoci dietro ad una colonna per non farci notare, e tra le istruzioni impartiteci, ovviamente, c’era anche il consiglio a dichiarare di non aver acquistato le bevande presso di lui, nel caso la polizia ce lo avesse chiesto. La Tunisia era arrivata a questo punto? Uno dei paesi più liberal d’Africa, dove le donne votano dal giorno dell’indipendenza, dove il velo non era mai stato un obbligo e persino le spalle delle ragazze erano ben in vista, dopo la rivoluzione araba di qualche mese fa era arrivata a questo? Andiamo bene… Con Ben Ali, che disse il 13 gennaio dopo i primi disordini scoppiati e subito rinominati ‘rivolta dei gelsomini’, fehemtkom alla tv “vi ho capito”, non se la passavano bene; ma almeno non si era cornuti e mazziati. Credo da sempre che per i popoli arabi non ci sia una preparazione alla democrazia, in quanto la religione stessa, disponga una struttura politica monarchia, o quanto più simile ad essa. Il caldo, il ramadan e la città stessa frenano la nostra intraprendenza costringendoci a tornare in quel noiosissimo hotel Thayna.

La nostra piccola camera è dotata di un lettone, una tv collocata a tre metri dal suolo, e un bagnetto. Doccia refrigerante e qualche dispetto, prima di correr in mutande nel terrazzone piastrellato per stendere alla finestra la biancheria ad asciugare. Ci spariamo una telenovela in stile fatimide-medioevale ovviamente dal risvolto tragico, tipo Beautiful, prima che Vale crolli per una pennichella. Lo sveglio, lui mugugna qualcosa, ma io non ci sento. Voglio-uscire-da-quella-prigione. Giunge tanto sospiratamente la sera, il crepuscolo scende su questa città che pur distando dal mare pochi metri, non ha spiagge ed è solo un grande porto (che velocemente visitiamo).

Tutt’intorno un mare per nulla invitante color fuliggine e costellato di imbarcazioni da pesca. Un vero schifo. Pazienza. Giriamo verso il Palais de la Municipalité in direzione medina, dove andiamo a visitare un locale in stile moresco per la sera, dentro (ma proprio dentro) le mura merlate. In città parlano di un ristorante citato anche sulla L.P., il Baghdad Restaurant, che ci spinge alla ricerca dello stesso, a ridosso delle ville nouvelle. Questo ristorante ha tutto fuorché lo stile degno del nome che porta. Una taverna tirolese, con l’aggiunta di qualche dettaglio texano (tipo le porte dei saloon) e il muro strollato. All’interno, famigliole numerose si nutrono ad una temperatura innaturale di 12 gradi (certificati dal display elettronico dello split), che chiediamo più volte di alzare, ma non ci sentono. Se sei arabo (e di conseguenza passi la tua vita in una terra pressoché arida), devi utilizzare l’aria condizionata come per la conservazione delle specie polari, altrimenti non sei emancipato. Ceniamo con due oija con crevettes (omelette ai gamberi), vino e dolce della Bindi.

Concludiamo l’esperienza freezer zampettando fino al locale ‘Diwan’ poste nelle mura, dove per 3 dinar, beviamo the ai pignon, e fumiamo shisha come se non ci fosse un domani, su un terrazzo vista città. Una poesia. Dal terrazzo, un’illuminante frase del Lemure traccia l’immagine di una città tanto enigmatica quanto poco interessante: ‘sicuramente in questa città ci saranno ceppi di colera, qua e là…’.

13 agosto

Lemure docet: Lasciamo alle nostre spalle la ‘magica’ Sfax alla volta di Matmaata, sempre in compagnia di numero 4 gnu arsi dagli ormai 50 gradi, che salgono via via che si percorre la strada in direzione sud, che più a sud non si può. Ma è proprio vero, non può piovere per sempre. Il nostro albergo ci accoglie a braccia aperte (anche perché siamo gli unici turisti). Si chiama Matmaata, ha una splendida piscina e le lenzuola ‘pulite’, ci rassereneranno la giornata. Dopo qualche ora trascorsa in piscina, nel totale relax, osservando le orde di turisti che in pullman giungono da Jerba per visitare le case troglodite in giornata e che sostano nel ristorante dell’albergo per menù preconfezionato a base di cous cous, omelette e carne ovina. C’è davvero di tutto, arsi dal sole, color fucsia, alcune addirittura in comodi zatteroni e pittate come se si trovassero sul set di Priscilla, la regina del deserto. Zampettiamo per le vie di Matmaata, visitiamo le case dei trogloditi e conosciamo la troglodita ‘madre’ di Mamadou, dove beviamo thé battericida accompagnato da un tozzo di pane prelevato da un tavolo ricoperto in vera tela cerata, con su una spazzola per la pecora, una zappa, piume di gallina…

Ad un tratto, rullo di tamburi, fiato alle trombe… George Lucas ci accoglie sul set di Star Wars! Già lo vedo Luke Skywalker alzarsi la mattina con le ciabatte di copertone e fumare la shisha al café Khalifa di Matmaata… Un momento di gloria, un senso di appagamento culturale e la consapevolezza di appartenere a quella razza di turisti da tour operator muniti di macchinata fotografica mi assale senza pervadere il mio orgoglio. Era una cosa che andava fatta. Acquisto mega braciere in argilla davvero paleozoico… La cena è davvero qualcosa di unico; essendo appunto gli unici esseri viventi oltre al personale, veniamo trattati da re. Tavolo agghindato in riva alla piscina, dove però non viene compresa la richiesta ‘nous sommes vegetariens’ ‘veg veg’ ‘naanu nabatyya’ (appreso per sopravvivenza, ma nel loro abbecedario zoo-culinario, il pollo rientra nelle verdure). Per cui, per immensa gioia dei felini tutti intorno, la cena viene comunque gradita e consumata.

Muraccio ha ormai abbattuto tutte le sue barriere emotive, qui al caffè Khalifa, mentre sorseggia due litri d’acqua ed un narghilé in pugno, si è perfettamente integrato con gli indigeni. Al bar troviamo Mamadou, il ragazzo dalle zanne color zafferano e gli artigli tipo ruspante alla ricerca di un lombrico, che ci ha accompagnati all’albergo, e poi in giro perla città sparpagliata nella landa lunare. Ad un tavolo, poco distante tra i suoi amici è intento a darsi una partita a carte, sorridendoci ogni qualvolta lancia una mano di carte ai suoi avversari.

La stessa madre di Vale, se dovesse avere una polaroid del momento, non lo riconoscerebbe, anzi, lo disconoscerebbe… Rientriamo in albergo, dove una placida piscina ci attende. Che gioia sguazzare sotto la mezzaluna africana, con un manto di stelle che adombra pensieri e nostalgia, mentre una flotta di pipistrelli planano a pel d’acqua per cibarsi di zanzare e moscerini. Tutt’intorno le basse mura color ocra dell’albergo, creano una sensazionale immagine da set cinematografico. Un’incantevole e spensierata serata. Rientriamo nella nostra camera, dopo aver percorso un tunnel ombroso sul retro degli edifici che si affacciano sulla piscina, una fresca camera con soffitto con volta a botte in mattoni crudi, layla sayyeda Afryqyya. Risveglio da sogno in quell’angolo ai bordi del Sahara dove sembriamo due soldati della Legione Straniera in un avamposto dimenticato da nostro signore. La colazione prevede uova crude, caffè latte, the e paneburromarmellata. La prima volta in vita mia che ingerisco un uovo semi crudo, esperienza da dimenticare mentre trattengo i conati con le fauci piene di una collosa materia gialla.

Never ever… Muraccio mi scruta tra lo schifato e il commiserevole, povero. Con i tizi dell’albergo abbiamo concordato per un taxi che insieme a Mamadou ci porterà fino a Tozeur passando per Douz, detta ‘la porta del deserto’. Ultimo bagnetto, asciugatura e via alle undici partenza per Douz, nel giorno del signore  14 agosto 2012. Mentre sfrecciamo sulla vettura ai bordi del deserto, mi faccio rapire da un ricordo di infanzia. Penso al Signor Tino, un falegname amico di famiglia, a cui la mia infanzia deve moltissimo, che nei suo racconti di guerra, mi disse che dopo la disfatta italiana di El-Alamein, lui, al seguito delle truppe italiane, si trovavano in procinto di rientrare in Italia, imbarcandosi dalla Tunisia, e di come ad un certo punto un generale avesse loro ordinato di scavare una buca per seppellire l’oro italico evitando che cadesse in mano degli Alleati… Il buon Tino… Tutto sembra congelato (pietrificato, come dopo l’eruzione del Vesuvio) nel tempo. Il caldo fa da padrone ed insieme alla polvere domina tutto il paesaggio e le sue sfortunate costruzioni. Dopo circa un’ora di jeep attraversiamo una landa desolata in cui la sterpaglia e qualche dromedario, ci ricordano la nostra destinazione.

Douz, quattro case, un ufficio postale e un inarrestabile flusso disordinato di macchine. Un ristorante che apre apposta per noi, into-the-ramadan… Vale, in poche parole, traccia volentieri le sue impressioni come il signor Pellico ne le ‘Mie prigioni’: ‘come  gli strati di ghiaccio della calotta polare raccontano le ere glaciali, gli strati sovrapposti di polvere sui tavoli e sulle tovaglie inchiodate sulla cerata, ci dimostrano che far vaccinare i nostri figli da piccoli è responsabile e propedeutico alla crescita, seppur nel nostro paese, per poi sperare di sopravvivere qui; come sperare in una botta di culo pari al Superenalotto di natale’. Inshallah. Con mesto atto di contenimento, ci accomodiamo evitando di scoppiare a piangere, senza troppo osservare le folate polverose e fingendo che non esistesse la cucina, ma che il cibo, come per magnanima bontà divina giungesse dal cielo. Ordiniamo oija e insalata, che ci arriva ricca e ben guarnita. Mentre iniziamo ad infilzare foglie e condimenti, gustandocela, ecco arrivare il pingue Mamadou, che chiedendoci educatamente il gusto delle nostre pietanze, ha voluto SOTTOLINEARE il non poco sgradito dettaglio dello chef artefice di quel piatto: Lui!

Cazzo, era davvero troppo quello, insostenibile anche per uno che come me non si lascia sorprendere da questi dettagli. Le sue zampe, mani, era simili a zoccoli di un mulo… Emshynayyek!!! Dopo aver pagato e dato il compenso a Mamadou, che da li in poi si sarebbe eclissato tornandosene con un’altra auto a Matmaata, il taxista ci conduce al Bab al-Sahara. La temperatura delle ore 13.00 è qualcosa di indescrivibile, Marte! Un vento infuocato soffia sulle nostre pelli come un phon, che trasportando seco della sabbia funge da scrub. Da subito, appena giunti sotto agli archi ad ogiva bianchi installati proprio dove l’ultimo lembo di terra dura inizia a fondersi con il manto sabbioso, a guisa di non inoltrarsi oltre senza scorte o viveri a sufficienza. Il disastro è ormai compiuto, tutto scotta, anche lo zaino, le fibie dei sandali, gli orecchini e le bacchette degli occhiali. Il termometro di Vale segna 57 gradi. Di fronte a noi il deserto alla Lawrence d’Arabia. Se non fosse stato per il desiderio espresso dal Lemure di vedere il deserto, mi sarei rannicchiato sotto la ventola del congelatore freezer dell’angolo bar ristoro. Due camelidi ci attendono, perché senza di essi, le nostre zampe sarebbero state arse dalla sabbia.

La prima ed unica tappa, un’oasi a circa un km da dove ci trovavamo. Io davanti e Vale dietro. Nero nerento. Mi pento di non averlo fermato. La sua macchina fotografica esala l’ultimo respiro, si fonde prima di poter scattare la sua ultima foto… Io davanti cerco di non gettarmi al suolo, il vento soffia forte e l’oasi, per uno strano effetto reverse/miraggio, sembra allontanarsi… Il cervello è sciolto, fuso, un ammasso disidratato, come una medusa spiaggiata. Ci rendiamo conto di esser arrivati, quando i cammelli si accasciano pigramente sul suolo. Due rimbambiti passati a fuoco lento. Ci attacchiamo ad una palma, nessun sibilo, nessun cenno di vita, se non quello di risalire automaticamente sui quadrupedi per ritornare indietro, flambé. Ingoiamo due bottiglie senza nemmeno accorgersene, le labbra secche avvolgono il collo della bottiglia come le pareti di un cratere vulcanico. Scotta tutto, persino l’elasticità delle mutande sembra esser diventato uno strumento di tortura demoniaco. In jeep, si riparte. L’aria condizionata non c’è, i finestrini non si possono tenere abbassati, la vettura è un microonde.

Un viaggio da incubo attraverso il Chott-El-Jerid, una striscia di terra larga non più di quattro metri che taglia un immenso lago salato. La traversata risulta difficile, altro set cinematografico, altro episodio di scherzi a parte. Il sole è ancora ben saldo sulle sue posizioni e non ha alcuna intenzione di ammorbidire la sua forza. A metà del lago, il taxista inizia ad avere qualche piccolo colpo di sonno, per cui, decide di sostare in un capanno lunga la strada in cui si vendono qualche bene di ristoro insieme a polverosi souvenir dalla forma di cammello e blocchi di sale colorati, con la scusa di fare qualche foto. Ma in un luogo così ameno, non poteva mancare la toilette… Mentre il taxista si getta al suolo, nel capanno, come svenuto e soprattutto, con una confidenza tale del luogo quasi fosse a casa sua, un ragazzino cerca di venderci di tutto, persino della sabbia (come se intorno mancasse). Vale compra un telo color deserto, da avvolgere sulla sua testa arsa. Io chiedo di nuovo delle toilette, e d’incanto, come se stessi parlando di un tesoro nascosto, gli occhi del giovane tunisino si accendono come lampadine di natale. Il gioiello di famiglia stava per essere mostrato in tutta la sua beltà! Una struttura a sé, quasi bianca, con quattro ingressi, tutti con porta sgruppata in legno azzurro con diciture in testa riportanti tale definizioni: normal, confortable, deluxe. Il primo ingresso consisteva in una mega bettola con wc rialzato, pareti rivestite di azzurro e un’aria sudicia da bloccare le vie urinarie. Il secondo, con porta socchiusa, celava qualcosa che non ci incuriosiva affatto. Il terzo, con insegna ‘deluxe’, un tappeto a righe di fattura indigena penzolante dalla parete, conteneva una turca altrettanto inarrivabile per qualsiasi standard igienico. È pazzesco constatare come sia differente la classificazione delle toilette (wc=not good, turca=ottimo) per non parlare poi del valore economico da attribuire in cambio del servizio ottenuto. Opto per girare l’angolo e farla dietro al muro, intanto nel deserto nessuno mi vedrà, mentre Vale, il solito Lord Lawrence, entra nel deluxe, forse credendo di trovare reggi-carta-igienica in ottone lucidato, lavamani in ceramica e perché no, un deo ambiente all’orchidea… Se ne esce dopo qualche minuto con uno sguardo fisso come se nel suo interno avesse avuto un colloquio con Belzebù (pagando due dinar). Sveglio il taxista che borbotta scocciato, è ora di partire. Il viaggio riprende, altre due ore di tortura. Il taxista finalmente abbassa il broncio e ci chiede in una lingua francosassone se abbiamo un albergo. (ovviamente no). Avvicinandosi ormai il momento di lasciarci e volendo guadagnare qualche soldino in più di commissione, ci propone un piccolo albergo con piscina, ai bordi di Tozeur, l’Oued, dal nome del piccolo torrente che scorre sul retro, è davvero bello. Il rapporto qualità prezzo ha qualcosa dell’incredibile. L’edificio è curato e ben tenuto, in mattoni color sabbia, che creano un motivo a bassorilievo tipico della zona. Vele: un sollievo in acqua a 45 gradi con dentro i mangialumache (termine applicato ai francesi), di puro cloro e moscerini. Altra poesia. Alla fin fine tutti cordiali e gentili, sorvegliati a vista da un bagnino che teme scambi ed effusioni amorese tra i frequentatori della piscina.

Solita levataccia mattutina, decidiamo di prendere due bici per visitare il palmeto che circonda in toto tutta la graziosa cittadina. Sicuri dei nostri polpacci e dell’ombra delle generose palme, ci inoltriamo senza tenere in considerazione che Paolino non sa usare la mountain bike e che il sole, orma alto nel cielo, non aspetta altro che salutarci, appuntamento allo Zenith. Insomma, vogliamo poi aggiungere le solite refrattarie e per nulla coerenti informazione da parte degli indigeni? Alcuni dicono essere due chilometri, altri cinque, chi addirittura 15 minuta ed altri 15 chilometri… Insomma, trascuriamo questo dettaglio e via. Paolino da subito accusa allucinazioni stradali e conati di vomito, io credo di aver imprecato contro gli autori della L.P. per tutto il tragitto, responsabili della favolosa idea. In bici, ci dirigiamo alla Gare Centrale per cercare di capirci qualcosa sui mezzi per rientrare a Tunisi, non essendoci voli aerei per i prossimi tre giorni. Acquistiamo biglietti per traversata notturna da gustarci la notte seguente. Dopo aver pranzato al Dar Deda, in avenue Abou El Kacem Chebbi, vera oasi nel deserto, che sembra tanto la casa di Paolino. Pomeriggio rilassante, tra sonnellini e pennichelle, bagnetto in acqua e sollazzi vari. Il Lemure acquista un anello girevole, io cesti in paglia, uno, due, tre…Solita ossessione da primitivo, la mia personale involuzione, come dice Teo. La sera si passeggia per la cittadina, che nel frattempo divenuta tiepida e dai colori magici. Un venticello soffia da nord est verso le palme e questo crea ristoro. Il Lemure, passeggiando, dispensa continuamente mesti ‘sahalam’ quasi fossero dei gettoni lasciapassare tra i chiassosi tozourini. Si cena di nuovo al Dar Deda, ottima location, che per la seconda volta si rivela un’ottima scelta. Bingo! Passiamo davanti al famosissimo hotel Continentale, ormai chiuso e in stato di abbandono e notiamo quanto sia spenta turisticamente questa metà tanto decantata, dove alcuni edifici dati alle fiamme, sono la dimostrazione che i venti rivoluzionari di qualche mese fa sono giunti fino al Sahara. Giriamo verso il nostro alberghetto paradisiaco, dove di sera i ragazzini sguazzano felici nel torrente, insieme ai cavalli in riposo. Anche noi ci lanciamo in acqua e ci restiamo per qualche ora, coccolati dal canto dei grilli, sotto un cielo dipinto, fin oltre la mezzanotte. Un ricordo piacevolmente eterno. In camera sistemiamo i vari acquisti effettuati sino ad ora e il premio non-sense lo detiene ancora il piatto doccia in terracotta, seguito da innumerevoli bracieri e zoccoli in copertone riciclato. Non demordiamo, mancano ancora molti giorni.

15 agosto

Ferragosto, rovente ferragosto. Sacro e dedicato al diletto puro (senza esagerare), tanto che solo dopo qualche ora, ci lasciamo convincere ad affrontare un giro in jeep insieme a due ragazzi spagnoli in direzione Temerza, confine Algerino, per visitare una città morta e un’oasi da Eden. Lemure: Isabelle e Ines (Ines è un ragazzo, e poi gli strani saremmo noi…) ci avevano studiati con interesse in albergo, ma non potevano immaginare che il vero motivo della nostra escursione fosse il folle disegno di Paolino di riempire bottiglie di sabbia del deserto. Chino sul ciglio della strada, incurante degli scorpioni e delle risate di Hamar, snobbiamo pure i rigoletti d’acqua che scendono lungo le rocce dell’oasi, per tornare in albergo alle sette di sera, disidratati e con qualche chilo di zavorra sabbiosa di troppo. Ceniamo in un lounge restaurant arredato in stile arab-chic, invaso da mangialumache e con una temperatura che sfiora i 13 gradi. Una checca isterica, probabilmente fidanzato con il cinghialoso cuoco berbero, ci serve una frugale cena. Il ristorante si chiama Le Minaret, si trova nella centralissima avenue Bourguiba, derniere la mosquée Ferkous.

Ottimo contesto, buon narghilè e the au pignon, e passeggiata serale nel souk ombroso e un po’ presepe betlemmino.

Mancano ancora tre ore prima che l’incantesimo finisca e che il nostro sollazzo si trasformi in un viaggio di 12 ore by bus verso nord. Fino alle ventitréetrenta nuotiamo in piscina, cantiamo e ci divertiamo prendendo un po’ alla leggera il nostro futuro (io già mi immagino l’incubo di una trasferta in stile beduine-caravan, ma non volevo terrorizzare il Lemure). Taxi, salutiamo la nostra oasi e in meno di sei minuti siamo alla Gare Centrale. In pochi minuti tutto si cancella, un’attesa snervante di un’ora per un bus che non arriva, fidanzatini si stringono la mano, famigliole in gran completo con corredo di pacchi e bagagli, attendono rassegnati l’arrivo del mezzo Gran Bus. Ed eccolo curvare quasi fosse a Maranello, in piega, alzando con il suo roboante motore una polvere che riempie tutto il cortile sul retro stazione. Il cielo sparisce, le lacrime scendono copiose oscurando la salita. Addio Tozeur. Il Lemure: un’epopea, Paride in confronto sarebbe stato un concorrente dell’Isola dei Famosi, anzi, tutta L’Eneide in confronto al nostro viaggio sembrerebbe un format anglosassone. Una vagonata di gnu, un’Arca di Noè senza biodiversità, un cargo clandestino sottocoperta in una traversata oceanica, uno spogliatoio dei New York Yenkies dopo il Superball, un galeone di Amistad, un bagno turco gestito da lapponi. Nove ore tra attese, ritardi, rottura pullman e trasferta su altro mezzo di soccorso ancora più stipato e fatiscente del precedente. Non c’è mai fine al peggio… La musica terribilmente inascoltabili degli indigeni tuona a tutto volume nell’abitacolo, il balletto dei cigni tra un sedile l’altro nella vana speranza di trovare una posizione degna a trascorre un paio d’ore in letizia, lo sguardo di Paolo, colpevole, mi guarda lacrimoso come a chiedermi perdono… Veniamo rimbalzati nell’ultima fila, cercando di appoggiare il meno possibile parti scoperte sui sedili. Veniamo scherniti, derisi e additati, che poi alla fine ci dimenticano nel pullman rotto per qualche ora, mentre tutti gli altri gnu trovano posto nel secondo funzionante. Veniamo intercettati solo grazie ai nostri bagagli dimenticati, altrimenti saremmo rimasti per strada nel cuore dell’entroterra. La legge di Murphy regola la giornata appena iniziata, tra le vie di Tunisi affollate di gnu di città e taxi imbizzarriti già alle otto del mattino. Guida alla mano imbocchiamo Rue de Bourghiba, agonizzanti dai dolori cervicali e dagli zaini pesantissimi, contenenti sabbia, piatto doccia e ciotole, ed altre amenità varie. Un carosello di visite guidate alle camere dei vari hotel ci infierisce il colpo di grazia. Sconforto e disperazione per le sistemazioni fatiscenti dei tre hotel visitati, inducono il buon caro Paolino a cedere lo scettro e nominare me magistero delle finanze. Si monta su primo taxi e finalmente le porte di cristallo di un albergo 4 stelle su spalancano al nostro arrivo. Il Majestic vera oasi di benessere e ristoro nella calda mattina tunisina. Si crolla saltando il pranzo, doccia interminabile, fin quando un’avventata cameriera, ignorando il cartello DON’T ENTRY affisso all’ingresso della stanza, ha fatto irruzione trovandoci praticamente in versione adamitica… Mio punto di vista: d’accordo, si poteva benissimo trovare qualcosa di meglio invece di infilarci a Buckingham Palace, questo bell’albergo non dista molto dalla via principale quella su cui si affacciano l’Opera, la chiesa, il teatro e i suoi lampioni Belle Epoque con le meravigliose palme e gli alberi pieni di uccellini festanti. Insomma, Tunisi mi piace da subito, è un porto, una città araba decorata alla francese, il top del decadentismo che io amo. Se penso poi che a piedi si può arrivare fino a Cartagine, mi monta il sangue alla testa. La via principale è stata ribattezzata 14 Janvier, in memoria della primavera araba. La brezza soffia dal mare e rende questa via davvero suggestiva, non si potrebbe trovare angolo migliore dove voler respirare questa tanto desiderata voglia di libertà. A piedi fino alla Goulette, il porto mercantile da dove partono il metrò per le varie fermate costiere. Nome di antenati illustri ci ricordano la storia coraggiosa dei punici, tipo Asdrubale, Annibale, Amilcare, Salambò, Cartagine, e della terra in cui ci troviamo. Un mare turchese di fronte a noi, un’incantevole scenario in cui l’unico momento di letizia consiste nell’assaporare lo scorrere lento della sferragliante metropolitana intenta a trasportarci in un luogo non ben chiaro, ed aggiungerei, chissenefrega. Arriviamo a Sidi Bou Said, un pittoresco quartiere della capitale che si affaccia sul mare, sembra un lembo di penisola ellenica staccatosi dalla madrepatria e trasportato si qui da una novella Didone. Ovviamente prezzi folli studiati per i turisti che in giornata giungono da Agrigento in barca. Insomma, un bel luogo di villeggiatura, bianco e blu, dove, per un attimo rapiti dalla poesia, cerchiamo pure qualche piccolo albergo con piscina (tutti pieni) per incappare in un paio di bettole che decliniamo, visto la particolare ed inaspettata sorpresa che ci avrebbe voluti co-abitanti della famiglia che li ci abitava. Meglio il mega hotel in centro, a questo punto. Si passeggia, si scherza e si gode del bel sole, fino al giungere del crepuscolo, una cenetta in una esplanade di mega ristorante di design, il Pirata, bello ed approssimativo, in lontananza gatti ringhianti, tranne uno che ci ha accompagnati per tutta la cena, personale lento e per nulla intenzionato a lanciar fuori i suoi pochi turisti. Rientriamo in Tunisi con taxi e Moumou, ascoltando Ramazzotti e Pavarotti, mentre io è vale proponiamo dal telefono ‘tu si si na cosa grande’ dei Radioderwish. Giunti alla Goulette, quattro passi fino all’arco che segna l’ingresso alla città vecchia per un the e un narghilè al rustico Sidi Bou Arousa Café. Un giro in medina brulicante di gente viva e chiassosa, come solo le vecchie anime della città possono esserlo. Un piccolo tour di perlustrazione per i regali. Lemure dixit: fumare la shisha tra le viuzze della medina sembra servire ad integrarci nella comunità tunisina, seppur con qualche difficoltà e scarsi risultati. È comunque piacevole, distensivo e socialmente appagante studiando i movimenti sciolti e ripetitivi degli anziani del paese. Saperi e tradizioni radicate nel passato ottomano, piccoli piaceri destinati ai soli uomini di un paese che non presta poca attenzione alla socializzazione.

Ci sentiamo coccolati. Notte Tunisi. La giornata inizia simpaticamente con una conoscenza alla reception, Joaquim, un ragazzone portoghese, ci sorride e dichiara così l’intenzione di conoscerci. Ha la strana abitudine di migrare da un albergo all’altro ogni due giorni, perché dovendo stare i Tunisia per molti mesi, teme di annoiarsi. Ci da il suo numero di telefono e ci chiede di chiamarlo per la sera, così da passare una serata nella movida della capitale. Io è Muraccio usciamo, diretti al mercato per un piccolo giro acquisti prima di recarci nella mitica Cartagine. Dopo pochi passi, varcato l’arco della porta principale, che la sera prende fuoco tra i baccanali indigeni, girato verso destra in direzione del municipio, incappiamo nell’episodio più triste che potesse mai capitarmi. Incontriamo un gattino di qualche settimana che trascina le due zampine posteriori tra l’indifferenza della gente. È una scena struggente, da far lacrimare il cuore. Dopo aver cercato di dar lui un po’ di sollievo, decidiamo che la creatura non può finire i suoi giorni schiacciata da un passante oppure divorato da ferite infette. Per cui, non con poca fatica, con l’aiuto di una vigilessa che dimostra sensibilità, fermiamo un taxi nell’indemoniato traffico cittadino. Si deve trovare un veterinario. Purtroppo non è assolutamente facile, in tutta la città (con tre milioni di anime) non se ne trovano che due, di cui uno chiuso. Giriamo per due lunghe ore, in cui, gattino in braccio, con carezze e grattino, regaliamo lui gli ultimi attimi di sollievo, prima di dover decidere in un ambulatorio nei pressi dello stadio di doverlo sopprimere. Lancinante. Occhi gonfi e mal di vivere, cerchiamo di sfuggire al tedio recandoci a Cartagine.

La mitica Qart Hadash, la città nuova, figlia della fenicia Tiro, fondata dalla regina Didone in fuga dal fratello Pigmalione che le uccise il marito Sicheo, barattò la sua libertà con un trattato con un re numida che le concesse un lembo di terra grande quanto una pelle di bue. E Didone, astutissima, riuscì ad occupare la collina di Birsa (bue, appunto) tagliuzzando la pelle in piccoli lembi, tanto da ottenere un’area di tutto rispetto (il teorema di Didine, appunto). Qui, visitiamo il museo, l’arena, e siamo tutti Annibali e Scipioni, le rovine sono maestose, ed un piccolo sussulto ci rapisce quando scopriamo di trovarci in quello che fu il porto da cui fuoriuscivano le terribili pentere che fecero tremare Roma, giungendo a portare i pachidermi sino in Lucania. Raccogliamo qualche pianta grassa. Disseminati in ogni dove,  pezzi di vasi, fregi e riccioli eburnei accendono desideri reconditi da veri cleptomani… Il sole è forte, visitiamo il visitabile, l’agora, il tophet, le vie colonnate finché il Lemere, ormai allo stremo delle forze, di fronte alle terme lanciò il suo flebile lamento che passerà negli annali. Fermo di fronte ad una piccola edicola che rivendeva mosaici, il nostro caro, lanciò il suo ultimo segnale d’allarme: ho fffffaaaaameeeeee…. Mosso a pietà, mi sono affrettato a rassicurarlo, cercando un ristorantino, ma non facile impresa, essendo ormai giunti agli ultimi giorni di ramadan… Il taxista ci porta in un posto tipo mensa tra la Goulette e Cartagine, dove pranziamo davvero dignitosamente. Ci lasciamo poi coccolare nella spiaggia immondizia tra di Naval Port, con autista canottato a seguito, nel pieno di un convivio familiare indigeno. Il gentilissimo signor taxista, tanto utile nella turbolenta mattina, ci riporterà in città e lo ringraziamo davvero di cuore, dopo esserci fermati per comprare una teiera cartaginese a Raf. Super mega docciona, e fuori per la caccia al ristorante che speriamo di trovare. Passeggiamo per la Medina, la attraversiamo i lungo e il largo, finché giungiamo in un angolo pittoresco, molto sud Italia. Dietro al portone di legno, si nasconde un semplice ed elegante corti letto bianco, il Dar El Medina, pochi tavoli ed un meravigliosi gelsomino si spalma lungo la parete, atmosfera magica e romantica, ma nulla da mangiare. La tragedia si consuma all’ombra del gelsomino, Il fantastico gelsomino. Non c’è stata sera che non ne avessimo comprati mazzetti da infilare dietro all’orecchio (ignari noi, lanciando segnali in codice di ricerca partner…) o collane di fiori.

Ci accomodiamo ed un cameriere dall’aria allocca ci si palesa chiedendo cosa desiderassimo. Menù fisso di peperoni farciti e acqua con livelli di sodio da calcoli renali. Specifico in franco arabo che siamo vegetariani, Nous sommes vegetarien/nahanu nabatyya, lui sembra capire… Giunti i peperoni, scopriamo che erano all’agnello, un olezzo di morte nel palato. Non c’è null’altro se non un’insalata total green, con mezzo pomodoro. Tutto questo dopo mezz’ora! Disperati chiediamo il conto, 90 dinar è la dichiarazione di guerra! Occhi rossi, palpitazione accelerata, tachicardia e ricordi di scene cruenti di film horror. Rincorro il cameriere rincoglionito e dichiarò il mio disappunto, ricordo lui che i peperoni avevano la carne, che la zuppa non è arrivata e che l’insalata cosi la si poteva brucare nell’orto! 90 dinar se li scordava! Appllez le maître, s’il vous plait! Dopo aver lui spiegato che si trattava di acqua e non di oro, un po’ atapirato, ci ha liquidati con solo 20 dinar in totale. Usciti, tra i vicoli fumosi della città vecchia alla ricerca di un utopico ristorante che però risultava sempre ‘tours plein’ alla tunisina… Lemuraccio ha fame, claudica disperato e tra le vie scorgiamo Joaquim il portoghese, che ci invita in un bel circolo culturale Parentesis, dove tra libri e clientela afro europea, ci presenta Hamdy e Yessim, due chubby bears autoctoni tra i più divertenti ci sia mai capitato di conoscere. Tra battute divertenti, poliglotte e belle agguerrite, sembrano due macchiette stile Ozpetek. Serata carina, tra musica e cocktail, ci salutiamo con Joaquin, che ora soggiorna all’Afriqyya hotel, per accordarci sulla giornata di domani. Appuntamento alle ore 13 per pomeriggio al mare, insieme alle Hollograms, whow, Mine vaganti.

18 agosto.

Tornando in camera, Vale acquista un narghilè ed io qualche cesta in paglia…

Coraggiosamente svegli alle otto del mattino ci promettiamo relax e qualche coccola nel nostro ultimo giorno tunisino ormai ‘gnuato’. Taxi fino al nuovo museo del Bardo, magnifico edificio ultramoderno e luminoso, sorto alle spalle del vecchio parlamento nazionale. Ingresso con consueto carosello di flirtanti bigliettaie che parlavano al caro Vale in arabo, confondendolo per un connazionale. Le nostre mandibole sbalordite crollano di fronte al primo mosaico che si palesa in questo magnifico museo corbouseriano. Tutto sembra meravigliosamente ben conservato, peccato che essendo ancora in allestimento, molte cose non sono ancora esposte. Milioni e milioni di tessere disegnano ogni tipo di immagine mitologica da Ulisse a Didone, da Venere a minerva, pesci, alberi, stagni, città e guerrieri si susseguono per interi chilometri quadrati, fantastico. Qua è la, sotto a queste stupefacenti opere d’arte, sfugge qualche gesto carino, l’unico della giornata (Vale, n.d.r.). All’uscita, un taxi, per 2,50 dinar ci porta in piazza della Repubblica e ci racconta, dopo aver assistito ad un banale incidente d’auto tra taxisti imbranati, che quelle licenze ad inesperti autisti di taxi sono stato l’ultimo episodio (ma tra i più importanti) di una serie di truffe perpetrate dalla moglie di Ben Ali, che per racimolar soldi, ha permesso venissero vendute quasi mille licenze a persone che fino a qualche giorno prima, guidavano al massimo asinelli. Tuffo in supermercato del centro, raccolta viveri per la giornata al mare, in corsie alienanti dove trovare pan carré e sottilette sembra difficile. Puntualissimi siamo sotto all’Afriqyya alle 13 in punto! Whow, si parte per Hammamet.

Ci troviamo tutti felici in macchina come bimbetti alla gita domenicale, nel baule dell’auto di Joaquin qualche bottiglia d’acqua, biscotti e altri generi di conforto acquistati al Prix de rue di Moktar Attiou, con noi, inscatolati in auto, ci sono Hamdy seduto davanti, Yessim alla mia destra e Lemure alla destra del pachidermico e sudaticcio ragazzo. Yessim, abnorme e dall’aria da soprano scaligero, canticchia qualsiasi canzone viene proposta dalla radio, come se la conoscesse da sempre; Marhia Carry, Madonna e la Lopez. Loro dono due vere macchiette, si prendono in giro in continuazione, ci fanno piegare dalle risate. Sembriamo io e Teo! Hamdy, avvolto nel suo villoso maglioncino nero, fa battute divertentissime su Yessim, che definisce ‘la mia bambina’, e le sue battute, seppur in franco-arabo-italiano, risultano comprensibili e divertenti. Uno spasso. Una volta giunti in spiaggia con famigliole locali e noi (tutto da dire), nel tentativo di fare la guerra in acqua, mi carico Vale sulle spalle, e Hamdy, cercando di portarsi il mastodontico amico sulle spalle, se ne è uscito dicendo, ‘pas possible, c’est tres lourde…’ Muoio dalle risate, scaravento Vale in acqua e mi faccio pure qualche sorsata di acqua salmastra. La giornata scorre lenta e rilassante, ridiamo come bimbi tra le famigliole basite tutte intorno, si urla e si salta, Yassim cerca di insegnare parole del tutto inutili a Muraccio, che riesce a malapena a ricordarsi alcuni numeri ripetuti a casaccio, talata, whaed, kamsa, kamsa, teesa… no teesa prima non me lo avevi detto e via così… Termini tipo basoola, indicandomi la ginomastia di Yessim, terma, indicandoci il fondoschiena di Hamdy e zebd indicando la protuberanza di Joaquim… Che ridere… Dopo un pomeriggio a scavar buche sulla spiaggia, cunicoli intestinali degni di lombricoidi, verso le 18 saliamo in macchina, diretti a Tunisi. Stasera ceneremo con Joaquim, ma senza gli altri compagni perché a loro tocca la cena del venerdì sera con la famiglia, l’ultima prima della fine del ramadan. Ceniamo in un ristorante dall’aria elegante di fianco alla chiesa, quasi di fronte sul teatro. Raggiungiamo poi i ragazzi per l’ultima povera fumata di shisha e the au pignon, nella tiepida notte cittadina, dove le luci ambrate donano alle sagome e agli edifici un’aurea calda e magica, dove potremmo trovare un Aladin e una Jasmine in ogni angoli della medina.

19 agosto

Lemure: sono sereno, ormai nulla può impedirci di tornare a casa, a parte Tunisair. Sveglia all’alba, corsa contro il tempo, verso l’aeroporto, giungendo al checkpoint in con due ore di largo anticipo, fanno si che a conti fatti, trascorriamo ben otto ore sulle comode panchine dell’imbarco e in questo momento che sono le 17.00 sto ancora facendo i conti con Murphy che mi dice “non sei ancora partito né? Sei seduto sulla tua sedia con la tua cintura allacciata ma i motori sono ancora spenti ne?” In sala e in cabina sento seppur in forma più rarefatta la popolare acqua di gnu che noi poveri turisti abbiamo assorbito in tutti questi giorni sulla nostra pelle. Devo ammetterlo, l’attesa non è stata pesante, e mi sono divertito parecchio grazie ad un quartetto di zie emancipate e colorite: c’era l’equivalente di Mughini, con gli occhiali in pandan con le scarpe, c’era il sostituto di Cecchi Paone, con la sua frangia impeccabile, c’era l’insospettabile fratello di Sacchi e la magica, unica e vera, inimitabile Ornella Vanoni pelata, una sorta di giraffa con un intervento alle labbra eseguito dallo stesso chirurgo della Marini, che nell’indecisione su cosa rifare prima, ha tralasciato l’ipotalamo e le ghiandole ormonali maschili. Una falcata elegante e sinuosa, uno sguardo da civetta guardona e una voce da cormorano di porto. Tutto faceva pensare che le quattro zie fossero andate in visita di una moschea alla ricerca di un dio supremo, di una divinità astrale diversa che lasciasse più spazio alla verve espressionista lasciata in dotazione da padre o madre natura. Anche qual un altro ha catturato la nostra attenzione, una coppia che ha dell’incredibile: Pinocchio e la balena.

La balena aveva uno sguardo ben incazzato. Il look era quanto di più improponibile si potesse vedere: montava dei sandali da trekking geox, panta jeans pinocchietto e T-shirt colle blu cocktail al Curaçao annaffiato con vodka. I capelli sembravano esser stati tagliati da un cosacco a cui la sciabola rotante non aveva risparmiato finiture e basette. Sembrava un gomitolo di lana mohair passato a 60 gradi con centrifuga, tutto rigorosamente color topo muschiato… Ma la vera perla era lui, con pinocchietto a scacchi, T-shirt rogge e fisique du role da gatto Silvestro, occhio vitreo fisso e dulcis in fundo un cappellino in crosta di paillette alla Jackson in Thriller. I cari individui, non appena scoperto il ritardo non previsto, si sono accasciati, lei distrutta ed allo stesso tempo visibilmente innervosita, lui, agitato e curioso, si avvicinava al desk per carpire informazioni false e tendenziose da riportare alla consorte Misery, con l’unico risultato di farla incazzare sempre più. Una bomba inesplosa, le frasi erano:  ‘hanno detto che non partirà più… Oppure: partirà alle tre di notte… E poi ancora: forse domani mattina… Lei incassava il colpo, sempre più color peperone, sguardo assassino fin a farci pensare che, ad un certo punto, caricasse come un ariete tutti i passeggeri in attesa per spatasciare le hostess contro la parete in vetro facendo strike. Rientrati a casa alle ore 23.45, ora, sarebbe opportuno in poche parole riassumere le vacanze puniche.

Paolo: trovo sia stata una buona, anzi, ottima vacanza, in ottima compagnia; il giusto compromesso tra imprevisti e sforzo fisico. Gestibile.

Vale: trovo sia stata una buona, anzi ottima idea tornare a casa.

 

Moyseion

Graphic Designer/Publisher

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