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Lampedusa

Lampedusa

Departure-icon 17/09/2016 - Arrive-icon 25/09/2016 3

Sono ormai anni che rimando questo appuntamento, ma ora è giunto il momento di viverlo. Lampedusa, l’isola più a sud d’Europa, la scogliera che accoglie da sempre le speranze di quella parte d’Africa maltrattata e delle terre del vicino oriente, la sonnolenta tavoletta di pasta frolla su cui spiaggiano gli stress e le ossessioni dei nord continentali, unti a puntino come aringhe desiderosi soltanto di stendersi sulle spiagge di borotalco. Lampedusa è la mia prima vacanza su un’isola così appartata, se non considero quella scogliera dimenticata in Malesya… Un anno dedicato all’Italia un po’ troppo trascurata da viaggi esotici e causa forze maggiori, nuovamente separate da Vale. È l’isola dell’illustre Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dove non  v’è traccia di Conti Salina, Fabrizi, Donnefugate e nobiltà decadute. Tutto sembra essere molto semplice e monocromo, anche se le due tinte principali, quasi accecano per tanto bagliore ed intensità.

I dammusi abbandonati costellano le strade in salita verso l’entroterra roccioso e sembrano impurità epidermiche. Qualche ciuffo di agave e fichi d’india, indifferenti alle folate di vento, decorano i cordoli delle strade dissestate come candeline sciolte su una torta saint-honoré.

L’inizio di una vacanza non coincide esattamente con il momento in cui si viene inghiottiti dalle nuvole, ma bensì da quando, attaccati al telefono, si fa richiesta della disponibilità di un alloggio… siamo un trio, alquanto improbabile ed è l’unica certezza, già dal principio.

Nilde (fu Emanuela), irriducibile frequentatrice dell’isola da oltre un trentennio, dà il via alla procedura di prenotazione in loco, che assorbe, dopo la telefonata iniziale, le restanti settimane successive, tra solleciti, risolleciti e pruriginose ansie (le mie) di scoprire la data del ritorno. Partiremo in tre appunto, io, Nilde e Paul, un ragazzone inglese ospite di Emanuela (Nilde), dall’aspetto di un hooligan del Manchester United ma dal cuore buono e molto molto simpatico.

A circa una manciata di giorni dalla partenza, le teorie oblamoviste di Nilde riguardo i lampedusani, lasciano spazio alla realtà; assenza di disponibilità aerea, conclamata poi a distanza di qualche giorno, dalla cessata attività del tour operator incaricato; per cui viene richiesto, (alla faccia di chi invece a tale tour si è affidato, scoprendo una vota atterrato sull’isola che non potrà lasciarla se non riprenotando su altro volo…) di arrangiarci cercando in altro modo un volo aereo.

L’aereo partirà alle 6 della mattina da Bergamo, per cui dovrò restare da lei la sera precedente, cenare insieme e svegliarci all’alba, per essere ad Orio con bus in partenza dalla stazione Centrale. Dopo una giornata pirandelliana, circa una quindicina di chilometri a piedi, armi e bagagli, Teo e Vale mi accompagnano a Milano. Ci raggiungono anche Pinna e Marco. Giulia prenota in un ristorante giapponese di nuova apertura, arredato allo stile tecno-maoista della Cina che clona sapori e gusti europei (gusto, non buongusto…). L’oculomandorlata addetta all’accoglienza ci comunica – con ghigno tipo maschera di dragone in cartapesta durante i festeggiamenti del capodanno – che il tavolo non c’è, perché non pervenuta la conferma della già confermata prenotazione telefonica. In poche parole, è come se la prenotazione non le fosse pervenuta. Giulia, la di Nilde figlia, frena a braccio teso l’irruenza materna, già con le fauci protese a  mordere l’avambraccio della piccola irriverente (capiremo poi perché…) geisha. Giustificazione: essendo alla prima settimana d’apertura, qualche piccolo inconveniente può capitare, e questo ci parcheggia una ventina di minuti ad attendere sull’asfalto dinnanzi all’ingresso.

Dopo aver preso posizione, parte un’ordinazione che sembra il teatro dell’assurdo, dove il panzuto cameriere segna le commesse accorpandole senza una particolare logica su differenti fogliettini trascrivendole con nome per esteso, anziché per numero, perdendo di comodità e senso pratico, per appiccicarli su una parete da cui grondano piagniucolanti post-it. L’attesa è qualcosa di estenuante, persino l’arsura da assenza di approvvigionamento idrico ed alcolico fa si che la cameriera venga richiamata al suo dovere. La povera ragazza corre per il lungo e il largo cabotando i tavoli e gettando qua e là piatti alla rinfusa. Prendiamo tutto ciò che arriva, tanta è la fame, indistintamente da ciò che contiene. Sparisce uno dei due cuochi e tutto rallenta clamorosamente. Ad una cliente che a qualche tavolo di distanza da noi, nell’ormai deserto spazio  lamenta l’esorbitante ritardo, le viene consigliato dalla ‘bambole chenoise’ di non tornare entro un lasso di tempo inferiore ai due mesi. Assurdo. Paul mangia 9 piatti, Teo una dozzina, il Lemure che detiene il trofeo ‘is the winner’ con un non ben precisato numero che si avvicina alla ventina…

Rincasiamo, quattro ciacole, un’usmata collettiva a piene narici lancia l’allarme. Uno strano odore aleggia tra il bagno e la cucina trasformando le due donne di casa in segugiesse che cercano invano di identificare quale animale in decomposizione giaccia nel camino o nel cavedio del bagno, senza risultato alcuno.

18 agosto

Sveglia alle 3,15 del mattino. Le trombe risuonano alternate per le stanze come allarme antiaereo, ci si trascina in strada. Un taxi. Bus per Orio. Ricordi confusi nell’uggiosa prealba ambrosiana fino a Bergamo. Aereo tra le condense nuvolose che si illuminano di lampi. Siamo sopra un manto soffice color blu intenso, finché l’alba alla nostra sinistra illumina di color corallo le nubi sottostanti mentre ancora a destra, un tonda e zuccherina luna si nasconde dietro un manto siderale sopra le svettanti ali. A venti minuti dall’atterraggio si intravede quel grande oro saiwa che è Lampedusa, galleggiar in un mare dipinto, riaccendendomi un ricordo d’infanzia, quando immergevo biscotti in una bacinella d’acqua, prima di far la gara insieme a Miriam e Luca, a chi ne ingurgitava di più. Atterriamo. La strada si snoda tra rocce costellate di agavi e spinose piante succulente. Sul bus, i recidivi ospiti del camping fanno gara a chi riesce ad estorcere più informazioni al cingalese Raul che risponde prontamente a questo ciarliero fuoco amico. Sulla strada per il camping una solitaria piccola locandina ‘ad memoriam’ di un qualche caduto sulla strada. Mi attraversa un dubbio su come possano succedere incidenti qui. Giunti alla Roccia il nostro bungalow si adagia su un vialetto fiancheggiato da mega ficus, ibiscus ed una solitaria pianta di carrube. Sulla chiave della camera compare un 5 e la non ben identificata sigla ‘mono’. In scooter, dopo i convenevoli ed i saluti alla locale confraternita di coriacei e impassibili frequentatori dell’isola, che Nilde conosce ormai da due generazioni, si giunge alla spiaggia. La Guitgia. Una piccola baia che splende su un mare che si specchia nel cielo. A proteggerla dal mare aperto, una cornice rocciosa che apre un varco sul Mar Mediterraneo, e più in là, verso l’Africa. Lampedusa è l’isola che c’è stata da sempre e su cui tutti sono approdati. Qui il tempo è ciò di cui altrove si ha poca percezione di avere. La placida bellezza e l’armonia fan si che ogni istante ti si imprima nella memoria; la ricerca di tale sensazione è quello che contraddistingue l’uomo dall’animale. Bella e la sabbia che soffice massaggia le piante dei piedi, piacevole il vento di grecale che accarezza le onde e costringe ad un’interminabile danza gli ombrelloni che sembrano sottane delle ballerine di can can su cui compare in berthold akzidenz bold corpo 60 la poco comprensibile dicitura di appartenenza al proprietario della spiaggia. Gasparino, un omino più alto di due sedie sormontate, baffuto e nerboruto, scuro come un bastone di liquirizia, che ciacola con chiunque pernotti nel suo territorio. La moglie, avvistata nel pomeriggio, sembra trascinarsi in acqua con le curvilinee forme della dea mater, osservata in un museo maltese qualche anno addietro… Paul bivacca tra la spiaggia e il vitreo mare sognando birra e stabilendo record da friday’night albionico (a sera si contavano una decina di birre, due bottiglie di vino e un whisky). Io annaspo già alla prima e sotto ai primi raggi di una calda mattina, veleggiata da un venticello pas mal, mi accascio, cercando di frenare l’appeal da Catone il Censore riguardo al topless di Nilde, la quale sostiene che oggi il mare sia sporco (rispetto al solito); io resto allibito come la piccola Pelin di fronte al nonno ritrovato… la giornata scorre lentamente, tra bagnetti salvifici e piacevoli pennichelle grattamona. Prima di partire ho iniziato un libro di Aldo Busi, molto divertente ma che ho lasciato in auto, in riparazione dal meccanico. Nell’indecisione mi convinco di prendere due libretti, entrambi regali del caro scriba Lorenzo, Luisito della Tamaro, la magnifica storia di una signora e del suo pappagallo. Mi fa sorridere, ma mi scatena anche un po’ di nostalgia per il mio Erode. Appena prima del tramonto, dopo aver avvolto le nostre salviette, in scooter, in via Roma, cuore pulsante della vita isolana. Un mojito cadauno, Paul una birra e 5 minipanini inghiottiti, all’urlo di ‘i’m hungry’ digeriti strada facendo alla volta del camping. La mia caviglia duole come non mai, da due giorni. Sera, cena godereccia in ristorante dell’albergo, dove del gustoso pesce è servito con un’insalata siciliana e annaffiata da due bottiglie di nero d’Avola. Giulia chiama e dalla telefonata si evince che è stato svelato l’arcano, o meglio è stato identificato l’origine degli effluvi odorosi da putrefazio. Insomma sulla scena del delitto è stato definitivamente trovato un corpo; un cavolfiore dimenticato nel microonde. E dio! Si e la causa è in vacanza con me. Siamo così ubriachi che alle undici lascio la compagnia perché completamente sbronzo, vedo Paul scomposto come in un caleidoscopio, in cui Emanuela non compare se non come una voce narrante ai margini del tavolo in tela cerata color verde acido da cui fuoriescono enormi girasoli gialli 3d. La notte è trascorsa avvolta da una piacevole e disarmonica orchestra di trombe facocerine e latrati nasali.

19 settembre

Sono sveglio o forse no. Vale mi manda un messaggio alla mezza e mi accorgo che sono le 7.59, mi vergogno di non averlo salutato telefonicamente prima della sbronza. Sento Nilde che esce dalla porta della camera a fianco. Mi espongo per salutarla, mi calamita fuori non prima di avermi deriso per il pigiama indossato. La calma la fa da sovrana, di fronte un mare piatto, qualche frastagliata nube color pervinca, e un brezza definita ‘maestrale’. I due improbabili compagni di questa improbabile comitiva salgono sui rispettivi scooter, ad ognuno il suo, tranne a me, che non essendo considerato autista, claudico verso quei due chilometri che ci separano da Giugurta (Guitgia n.d.r.) beach. La strada è un morbida curva che si snoda lungo le colline rocciose, costellate di meravigliose graptofoglie, agavi, e tante altre belle succulente. Mi trasformo in un piccolo Cappuccetto Rosso in boxer hawaiano e visiera che saltella qua e là tra i dammusi a cattar su qualsiasi cosa abbia vagamente le sembianze di una pianta. A poche centinaia di metri dopo il grande ed elegante dammuso in vendita, rivedo la locandina votiva di quella sconosciuta vittima della strada. Riordino due dei molteplici vasi rovesciati dal vento e vedo il volto giovane di questo ragazzo in veste da carabiniere. La data riporta la nascita 19 settembre 1979. Oggi sarebbe stato il suo compleanno. Il paesaggio è assorbito dal pensiero di quel giovane, intanto le piante raccolte iniziano a pesare come simbolici macigni di un ingiustificato furto a questo paradiso, oltre a quelle fastidiose spine che restano conficcate nei polpastrelli, mi riportano alla realtà. Scaccio il pensiero. A forza. Mi fermo, Rapito dalla bellezza dello scorcio che si profila alla mia destra, accosto lungo a dei gradini e mi chiedo, perché non sostiamo in un paradiso, seppur roccioso con un mare assolutamente ineguagliabile. Nemmeno in tempo a scattare un paio di foto che mi telefona Nilde preoccupandosi del fatto che da oltre un’ora non sono comparso. Le dico che sono in un posto stupendo. Lei mi sfotte, dicendomi che dalla spiaggia mi vedeva, ed ecco, ora ho una visione totale di quella perfezione naturale, che dall’alto però, gli rendeva vera giustizia. Mare, sonno, birra e lettura. Scosto un occhio dal libro che adagia sulle ginocchia, e vedo Nilde lanciarsi all’attacco di un pakistano che vende scamiciati in tessuti tinti al nichel made in Pakistan, ma decorato con motivi lampedusani, ma che si conclude con un nulla di fatto all’urlo di… tutte queste tartarughe del cxxxo… Prima del tramonto si rientra, l’obiettivo è incontrare Pietro, dopo aver slalomato tra le vie della cittadina. Nilde senza volerlo ammette, di  essersi persa. In casa troviamo solo Maria, la moglie, una signora dall’aria buona, di quelle anime che sulla pelle portano l’eterno ciclo della nascita e dell’allevamento prole delle prole, eterno rigenerarsi tra le scogliere, radice di quelle generazioni che spesso lasciano il nido per volare verso il continente. Telefono a Vale che mi racconta della visita di mamma. Mi dispiace lui non sia qui, e mi dispiace ancor di più non esser con lui in questa giornata difficile. Pietro al momento si trova al Bar dell’Amicizia, assomiglia in tutto al signor nostromo per antonomasia, di quelli che si vedono sulle confezioni del tonno in scatola. Una piacevole e pacifica aria da lupo di mare, come lui stesso si definisce, un uomo che potrebbe tranquillamente discutere in ‘sabir’. Il bar è un ritrovo polifunzionale che propone pizze, carboidrati e gelati d’ogni sorta. Il terrazzo si spalma su un tramonto delicato che sembra un cocktail schiumoso appena estratto dallo shaker. Nilde e Pietro si raccontano, chiaro che tra di loro c’è un affetto consolidato, quasi paterno, di quelli che inspiegabilmente uniscono le anime in abbracci, di quelli che in pochi secondi ristabiliscono lo status-quo antecedente ad una lunga distanza. Tracce di affetto trentennale. Nilde, rimanda le folte basette color dell’argento dietro alle orecchie, almeno un paio di volte, prima di scuotere la testa per sistemare la frangia. E rulla la quarantesima sigaretta della giornata. Pietro e Paul, come i due antesignani discepoli del nazareno, ingurgitano due Peroni da 66; il britannico pure circa 5 panini mignon al sesamo e prosciutto. Se il mattino ha l’oro in bocca (risveglio immediato ed iperattività) la sera ha manco l’alluminio, per cui, come una lumaca mi trovo a trascinare la mia zampa dolente attraverso corso Vittorio in direzione del Gallo d’oro, dove una spassosa cena con felpa, disperde le fatiche quotidiane. Poco distante dal nostro tavolo tre ragazzi dall’aria un poco lanzichenecca ridono a gran voce, uno dei quali ha una risata sibillina davvero divertente. Giungono persino a lanciare battute dolci al ragazzo seduto al tavolo di fianco, affiancato dalla fidanzata, una ragazza bassina, con vestito multicolor pacchiano e dal cui lobo pende un orecchino in stile mortifié par Dieu delle dimensioni di un ostensorio. Nilde è chiaramente ubriaca. Molto ubriaca. Tant’è che dopo essersi passata il tovagliolo sulle labbra, ha posato l’occhio, già un poco opaco, sulla restante parte di bottiglia che aggredisce in un paio di sorsoni. Ripercorrendo a ritroso la via che ospitava i nostri scooter incontriamo finalmente una vecchia conoscenza di Nilde, dalle fattezze incaiche, che ondeggia da una gamba all’altra mentre si lamenta delle orde turistiche, raccontandoci del desiderio di venire al nord, a novembre e che l’indomani sarà promotore dell’ape musicale, che all’unisono lo immaginiamo a cantare alle vespertine sieste post balneazioni, in orario di aperitivo… invece no. L’ape musicale consiste in una traversata del villaggio a ridosso di un triruote della Piaggio dove lui, sussiegato a mo’ di statua vanvitelliana, elogia con canzoni i quartieri cittadini in onore della locale sagra mariana… e con questa immagine che ci attraversa la testa, montiamo sui dueruote, uno dei quali, senza fari. Al rientro la strada sembra ancor più dissestata, il senso di percorrenza sembra quello di un tender trascinato in un mare agitato. Al bar del camping si procede un po’ a tastoni. Nilde è piegata in due dalle risate mentre l’inglese mi sfotte chiamandomi amabilmente ‘hopalong’, nomignolo che tradotto potrebbe significare ‘salto al lungo’. È un piacere sentirla ridere, sembra una ragazzina alla prima sbornia! Paul come un missile si dirige al bar, Nilde aggrappata ad un palo di legno sostiene di volermi aspettare (anche se ormai sembra chiaramente dimentica del mio problema) e si sganascia. Ride. Paul prende del vino, Nilde due limoncelli, io nulla, mi accarezzo la caviglia implorando una grazia come al tempio di Esculapio; alla tv danno Grande Fratello Vip, vera tragedia umana. Ma il vero spettacolo resta a venti centimetri al di sotto della tv, dove un’ipnotica pulp-famiglia in stile romanesco, vede un bimbo di otto anni circa rapito dal suo palmare, mentre babbo e mamma si divertono ad inscenare una patetica ma irresistibile gag famigliare. Lei si alza e si siede, mostra cosce da uno spacco vertiginoso, si accascia su un muretto in stile estasi santateresiana adducendo ai dolori cervicali, scomodità e scottature solari, sotto gli occhi visibilmente melmosi da qualsivoglia sostanza simil stupefacente del barbuto marito che sembra Robinson Crusoe, che passa dallo stato catatonico alla sfrenata ilarità, con i neuroni su Urano, che non batte un plissé. Quasi al collasso, io e Nilde rientriamo e come se non bastasse famigliarizziamo con la non-famiglia borderline, che si apposta dietro alla paratia in pietra. Vabbè, era quello che ci mancava e sulle note di questa romanza romanesca, quasi fosse una passacaglia medioevale, andiamoooo a dormire, bisogna dormire, e non dirsi menzogna dormire bisogna… Ripongo le chiavi sotto al posacenere nel patio antistante, come concordato con Paul, mascherando con le piante grasse estirpate e riposte sulla tela cerata in modo che le possa ritrovare (non senza pungersi le dita) e destandosi, eviti di entrare in camera passando dalla finestra.

Alzo gli occhi ed il piccolo carro è visibile e sembra indicare lontane galassie, come un mega orologio in cui le due lancette indicano giustamente la mezzanotte. Buona notte.

20 settembre

Non ho avvertito rumori, apro gli occhi alternando il flusso luminoso attraverso le pupille, ma ne dagli occhi ne attraverso le orecchie e men che meno olfattivamente, avverto traccia di Paul. Il letto è intonso. Lui non c’è. Scrivo a Nilde che il bellimbusto non è rientrato e fuori, sotto al posacenere non c’è il mazzo di chiavi. Al bar di lui non c’è traccia. Lo immaginiamo immerso in una sonora russata in terrazzo tra gli oleandri, oppure in caletta, anche se senza veramente dircelo, l’immagine che più ci ruota in testa è di lui completamente ubriaco con il faccione spalmato sul tavolo di un qualche altro bar, con le braccia penzoloni. Sorseggiando un latte macchiato, ingoiamo spassosi immagini di rocambolesche fuitine notturne love night in paese.

Nulla. Lui non sembra esserci in alcun dove. Pluff, volatilizzato. Nilde vorrebbe accertarsi che lo scooter sia ancora parcheggiato, ma non ricordandoci entrambi della targa, è costretta ad estrarre il contratto d’affitto, passando l’indice al pari del naso ad un centimetro, per verificare la targa.

Il motociclo è parcheggiato esattamente nella stessa posizione dove è stato riposto ieri sera. Nulla. Per altri venti minuti ancora, finché ad un tratto, il celtico come anima risorta di Braveheart, ricompare. Avanza barcollando abbracciato ad un enorme sacchetto ricolmo di immondizia meticolosamente separata in due borse ecosmaltibili, differenziata e ripulita, degna della migliore figura ossessiva compulsiva; un’avvocatessa schizzatissima, che ha salutato pocanzi nel parcheggio e che dai suoi racconti è stata gentil offerente di due bottiglie di Jack Daniel, causa una sbronza atomica di cui ricorda solo la notte trascorsa all’addiaccio abbracciato ad cane in giardino. Anyway, Paul ‘the Animal’ oggi non ci delizierà della sua nobile presenza; esala un odore di acquavite tipo botte di rovere appena svuotata. Andrò con Nilde in scooter ridendo di come sarà il rientro in quel porcile, perché con due sacchi di immondizia abbandonati, bottiglie di birra vuote e ciuffi di piante grasse sradicate, non vi è altra definizione più azzeccata. In spiaggia un lieve e spumeggiante maestrale fa’ si che non riesca a togliermi la canotta. Parte il gioco del togli e metti in base al numero di secondi in cui la dispettosa nuvola decide si sostare davanti al sole. Il pakistano quotidiano srotola il suo cargo di voile e chemisette, copri costumi tartarugati e teli mare made in Karachi. Nilde si lancia di nuovo a capofitto sopra la variopinta collinetta ma non riesce a cogliere altro se non due piccoli cenci, mentre io veleggio cercando di rispondere alle domande di una ragazza un po’ speciale che al ripeter del suo nome e della sua imminente partenza sottolinea la teoria elaborata ieri da Paul che ridacchiando in inglese disse qualcosa del genere: …  “in Inghilterra si direbbe che a quella le mancano un paio di panini per fare un pic nic”. Ogni tanto alla ragazza scatta in una risata, ed io contagiosamente la seguo, ma alla domanda di Nilde del perché di tanta ilarità, maschero, incolpo il racconto delle vacanze che sto scrivendo sul palmare, perché un po’ mi vergogno…

Il pomeriggio ci scivola lentamente addosso. Mi accorgo di aver assunto la posizione da rana spalmata, tipica di chi non sa bene cosa fare. Mi accontento di mirare il nulla, prosecuzione perfetta della piatta cerebrale. Nella tarda si risale, il solito problema di accensione del volomotore fa’ si che si debba ricorrere alla pedalina, cosa che per la mia caviglia risulta esser un toccasana. Nilde cerca di scavallare lo scooter senza decelerare, e se non fosse per per il mio pronto intervento, l’avrei dovuta ripescare nella garrita di Gasparino o al peggio in mare… svolazziamo per l’ormai ombreggiata via alla volta del camping, dribbling pericolosi con dito medio mostrato ai fotografi adescatori, varcato l’arco di pietra in stile palmireno, l’immagine destata del Lazzaro risorto ci rincuora. Beve acqua. He so healty. Il suo volto ha ancora i segni del cuscino, ruvidi solchi che come tavole d’argilla babilonesi riportano inciso un solo messaggio: scrambled. Insomma, l’aria di uno che non deve aver avuto una buona giornata. Dopo una doccia frettolosa a 200 atmosfere tipo Stallone in Rambo, un calice di vino nella terrazza in attesa del ristabilito ordine cosmico; la mia caviglia fasciata con una pezza color ecrue di gentil concessione di Animal, Nilde che rolla le sigaretta e Paul che a palmi stretti e gomiti sul tavolo, nella sua posizione tipica, sembra implorare pietà al dio Bacco. Tutto sotto controllo. Stasera, la prima in tv di Lampedusa, il nuovo film di Marco Pontecorvo con Amendola e la Crescentini. Il film è sulla bocca di tutti, anche perché vede alcuni dei suoi abitanti interpreti di una qualche parte. È l’isola su cui han messo piede Fenici, Greci, Romani, Bizantini e Arabi e che alla nuda vista sembrano non aver lasciato molte tracce, se non qualche coccio d’anfora, qualche moneta o altri cimeli sepolti intorno al periplo. Dicono che sia stata famosa per quella salsina a base di pesce, il garum, che tanto piaceva ai romani. L’origine del nome di questo piccolo approdo di poco più 20 km quadrati è parecchio discordante e sembra provenga dal termine ellenico ‘lapades’ un pesce che abbondava da queste parti, oppure da ‘lepas-ados’  ovvero le ostriche. Per molti secoli dimenticata, fu dapprima colonizzata da maltesi, francesi, russi prima di passare sotto al dominio Borbonico (che ne decisero il ripopolamento) dopo averle acquistate dai Tomasi di Lampedusa, titolo acquisito dall’ispanico monarca delle due Sicilia.

Lampedusa, come si e cercato di rappresentare nel film, una metafora. È lo scoglio dove spesso si approda dopo un lungo peregrinare in un mare di difficoltà, è la cruda bellezza raggiungibile con grande fatica e non pochi sacrifici. È la paura del futuro insieme alla fuga dal passato. È il senso di abbandono e la speranza di essere accolti che si incontrano, la profetica caparbietà di molti europei che non vogliono capire, che non sanno nemmeno lontanamente cosa significhi quell’immenso dispiego di energie. Il sisifico scorrere della vita stessa, in duecento chilometri di mare. Nilde singhiozza di fianco a me, ed involontariamente, (ma molto involontariamente) assume l’apotropaica espressione dolorosa di una supplice all’altare (l’immagine è soltanto mia, deduco non lo faccia apposta). Lo sforzo dei suoi abitanti, dei pescatori e di tutte le persone che hanno capito che la loro terra è da sempre il primo approdo, è la porta d’Europa, come l’ingresso di un ripostiglio dall’aria un po’ malvagia, le cui chiavi sono un’enorme mazzo arrugginito da cui pescare quella giusta, da infilare la toppa. La burocrazia incancrenita, le cervellotiche stanze dei bottini che non arrivano a capire in cosa consiste la vera natura di questa emergenza (me compreso) di quante siano le situazioni che si generano attraverso l’umana transumanza, le condizioni igieniche, la carenza del latte per i più piccoli, vero calvario, le forti temperature, le madri senza figli e i figlie senza genitori, voci dimenticate in questo mare che nulla dice e tutto traccia. Il dolore e la forza. Una dolorosa domanda all’interno del film ben riassume quanto spesso accade: “…perché le petroliere possono andare ovunque, mentre noi no?…. Solo perché il confine è il mare?”. L’isola e la magia del cielo blu cobalto si spengono nelle immagini che lentamente non accennano a svanire.

21 settembre

Risveglio, colazione solita siesta a 400 calorie, troviamo lo scooter rovesciato che perde olio come una scatoletta di tonno dimenticata sul tavolo. Giunti alla Giugurta (Guitgia) Filippo, il ragazzotto che ieri sera ha fatto una piccola comparsa nel film (di cui si ricorda la miglior interpretazione in Respiro) attende tronfio all’ingresso della spiaggia come una star sul red carpet. Sorride nel suo biondo e fulvo manto normanno, occhi azzurri ed epidermide violata dal sole, attende complimenti da chiunque lo abbia riconosciuto (tutti) come un omaggio al sacro altare del successo.

La giornata prosegue tranquillamente tra le varie scorrerie di Paul alla ricerca di luppolo e le castranti abluzioni di Nilde, che non essendosi ancora abituata alla temperatura marina, sfida timidamente le acque non oltre il ginocchio. Rien a declarer. A pochi minuti dalle diciotto, appena riemergo trovo Manuela già vestita. Lei e il suo baldo alleato ardono dal desiderio di tracannarsi qualche ettolitro di alcol in un qualche locale del centro. Sono agguerriti. Lo vedo nei loro occhi. In entrambi si intravede la tempra che aleggia nelle vie sassoni del venerdì sera. Iniziano con l’ordinare un mojito per la signora, birra per Paul e un’acqua tonica per me. È solo l’inizio di quello che saranno poi un susseguirsi di ordinazioni, un’andirivieni di bevande in barattoli ‘quattrostagioni’ che alimenteranno l’ormai curva alcolica ascendente di Nilde, facendola semiadagiare in posa eburnea tipo Galata Morente, sulla schiena di un cane, mezzo labrador e mezzo puledro che si aggira nei pressi. Al rientro nel camping sfascenti (pure io faccio glu glu con le borelle agli occhi). Ultimo a fare la doccia; ritrovo nuovamente i miei compagni al bar. Mentre sono al telefono con Vale, distrattamente adocchio il panorama umano del luogo.

Stasera ci sarà la seconda proiezione del film ‘Lampedusa’ che vorremmo vedere, ma che frappone tra il nostro tavolo e lo schermo un paio di coppie in vena di festeggiamenti. Peccato, Nilde alzerà il volume a dismisura. Al tavolo Paul parla in non so quale lingua con qualcuno che ha conosciuto forse in quella notte brava tipo Hangover, si chiama Domenico ed ha un aria davvero paralizzante. Come se non bastasse alla mia sinistra un altro paio di uomini local con dei volti inquietanti, uno dei quali soprannominato da Paul ‘the samoan’ scrutano mestamente il vuoto cosmico come due squali sazi. Cena, Nilde avanza in postazione film, impugnando il telecomando che in un attimo schizza da vol. 41 a 74, lasciando attoniti i sottostanti commensali (che si lamenteranno poi per la loro l’oltraggiata ricorrenza). Cazzi loro, una cena così importante (per loro) possibile che possa guastare la proiezione di un film che riguarda tutti? Poco distante dal muretto in pietra, altre due coppiette attempate se la ridono con scialbe battute alla faccia del dramma annunciato. Pazienza. Ma la vera jattura si compie a circa mezz’ora dalla fine, quando due ragazze, una magra trentina ed una romana senza collo chiedono il permesso di avvicinarsi per sentire meglio il film. Ecco. Per i restanti minuti, ho seguito le immagini del film senza capire più nulla perché ogni singola scena veniva commentata con personalissime esperienze ed immagini private, del tipo: …a quella è Cala Pisana, si, no… se vede la casa de Modugno, a si.. te ricordi è? è ao… quella la salvano, aò… li ch’arrivi en barca… io sto quà en barca…. carra carra er bambino… ecco…” Paul rientra da una sortita in scooter dal paese dove ha accompagnato un timido ragazzino ginger che nel pomeriggio ha rotto i nerdeggianti occhiali e che stasera sarebbe dovuto andare a ritirare dall’ottico. Fa parte di una comitiva di studenti meltin-pot olandesi di una facoltà di architettura. Fine, mestamente andiamo a pagare alla cassa del ristorante mentre Il samoano e l’altro bravo, incrociano lo sguardo dell’inglese invitandolo a restare. Paul veleggia al largo e declina sorridendo. I due tacciano l’inglese di di pericolosità, mentre Paul liquida il losco tipo con una lapidaria: ‘you’re so dangerous…”. Tiri incrociati di un fuoco amico. Una volta giunti sotto la tettoia adiacente alla camera, parte come al solito il racconto del-che-fù di qualcuno di noi. Paul mima con il pollice che scocca contro l’indice il tipico gesto dello stappo della birra. È tempo di bevuta. Bene, apre il cassonetto dei ricordi da cui fuoriesce come acre olezzo, un addio al celibato consumato a Benidorm (‘colonia’ estiva inglese in Costa del Sol) che amorevolmente chiama Costa del Slut (my god!!!) un posto allucinante che ho visto una ventina di anni fa’ solo di passaggio ma che ricordo come un grande orinatoio a ciel sereno, sulle cui vie in ripida discesa si stagliano rumorosi locali puzzolenti di birra e da cui fuoriescono chiasso e brutture.

Inizia di come lui, organizzatore di una trasferta di inglesi, abbia gestito la situazione. Una sola chiave per un appartamento per diciotto holligans unchained. Hanno visto bene di sradicare le porte, prima a calci poi riparandole, smontandole, mettendole e togliendole ad ogni tramontar e sorger del sole. I racconti si snodano tra gare alcoliche il cui trofeo risultava essere una t-shirt ogni 6 pinte e di come in un giorno fossero riusciti a rifarsi il guardaroba con 21 pinte al miglior impavido bevitore, ovvero lui. Poi il racconto snocciola ricordi che vanno dal furto di banconote da parte della rumena durante un amplesso e la famigerata ‘Vicky the Sticky – Vicky l’appiccicosa’ ovvero una talentuosa show girl che intratteneva orde di turisti estraendo ogni sorta di oggetto dalla propria vagina. Ora, ormai attempata, l’appiccicosa ha passato il testimone alla figlia, insegnandole per bene l’arte del mestiere… Andiamo a dormire. Due pagine e poi sprofondo in un sonno, in cui la ‘signora’ benidormina vola sopra il mio letto e dal suo ventre fa fuoriuscire esseri umani che svolazzano vestiti da hippy e le cui maniche larghe sembrano pipistrelli, o pappagalli. Vicky sembra un aereo della Royal Air Force che volteggia nella camera pronta a elargire generosamente qualche dono, come variopinto aquilone carnevalesco. Ricordo poco altro ancora, se non che ad una certa l’inglese lancia due missili scud terra-aria che mi fanno svegliare. Mi riaddormento e son di nuovo in trincea, ma le cui linee nemiche sono scavate in una spiaggia mervigliosa con piumosi animali che sembrano delle nuvole dalle sembianze ovine. E come disse Publio Terenzio Afro, ‘humani nihil a me alienum puto….’. Ronf Ronf.

22 settembre

Risveglio soft. Colazione in mezzo all’orda di beneducati studenti dell’ateneo batavo che attendo le istruzione dagli insegnanti per partire alla scoperta dell’isola. Oggi sarà la sagra del paese, e come se non bastasse, sull’isola nessuno parla inglese. Speriamo per loro non sia un fallimento e che non rientrino delusi da questa sortita. Nilde lamenta insofferente le noiose mosche, sorseggiando consecutivamente due bicchieroni di latte macchiato e due brioches. Nulla di strano, se non fosse che  quindici secondi prima, mi avesse detto che non aveva fame… Paolo e Paul con fetta di crostata. Scooter, diretti alla Baia dei Conigli. Lungo questo desertico tragitto, dopo circa un chilometro, il braccio teso di Nilde indica una struttura dall’aria semiabbandonata; è il canile, quello stesso edificio che in ‘Respiro’ vedeva la selvaggia Golino liberare tutti i cani ivi residenti, come Marianna alla Bastiglia. Infatti, quella scena potrebbe essere l’inizio di quel bivacco canino che vede gli stessi ben inseriti nel conteso cittadino, per poi ritornare all’ora della pappa. Parcheggio, l’area è una riserva naturale. Vengo ripetutamente intimato, nonché minacciato di non toccare nulla. È un incanto già dai primi metri percorsi in discesa. Finché, giunti sulla strada lastricata, la splendida villa di Modugno ci accoglie e sembra che dalle sue finestre semiaperte fuoriescano note …poi d’improvviso venivo dal vento rapito… e incominciavo a volare nel cielo infinito…. Che fantastico angolo di mondo. Emozione. Sicuramente il più semplice e completo panorama che io abbia mai visto. Il primo pomeriggio scorre all’insegna della reissatura dell’ombrellone che cerca di decollare ad ogni folata di scirocco. Il mare in alcuni punti è tiepido, come dicono da queste parti ‘u brodu du ..’, ed è davvero bello oziare come carcasse spiaggiate. Il mio omonimo versione ‘barbarian’ rincorre l’emiciclo ombroso per evitare che la sua pelle bordeau venga sfiorata da nessunissima fonte di calore, nemmeno dal riverbero di un accendino.

Nilde allaccia e slaccia ossessivamente il cordoncino del reggiseno. È chiaro che la infastidisce, si sente braccata. Per forza, le faccio notare, le coppe sono al contrario, come se i seni per una strana forza gravitazionale, tirassero verso i lobi. Lei ribadisce che anche oggi non sarà pronta per un’abluzione, manco a parlarne. Circa verso le due, dopo aver gradevolmente riso in acqua, Paul scalpita per il suo pub o’clock,e finge di leggere un thriller da cui ogni due secondi sgancia gli occhi. Chiaro segno che è voracemente affamato. A solcare l’orizzonte, una nave simile ad una pantofola gigante color amarena, galleggia dimenticata come fuoriuscita dal baule di Poseidone. Il mare è placido, tenue, come la mollezza che mi sento addosso; merito anche della mancanza di campo dei cellulari, che rende il panorama tutt’intorno più normale, meno chiassoso e banale. Ogni essere umano è ciò che è senza cellulare. Inverosimilmente un individuo normale. I miei risalgono diretti al bagarino di sosta e poi in scooter al camping. Trascorro altre due ore leggendo, immergendomi e spalmandomi di farinosa sabbia con la beata demenza stampata nella testa, tanto che anche le tasche dei miei calzoncini soprannominati ‘giungla di fenicotteri’ risultano pieni. La risalita è un disastro per la mia caviglia, rosicchiata dalle fauci du questo doloroso demone, arrivo in cima, dove un panzuto ‘biker’ girgentino mi avvicina dicendomi di aver passato nove ore su un traghetto per portare la sua moto qui. Non lo prendo sul serio proprio perché il lasso temporale mi sembra improbabile, per cui relego la conversazione a mero passatempo e poi vado. Nel blu degli occhi tuoi blu, felice di stare quaggiù…

nel blu degli occhi tuoi blu… felice di stare quaggiù… Emozione della desolata via, vedo di nuovo il canile, e sospiro di fronte a questa struttura simile ad un immensa carcassa di pleontosauro, dalle cui orbite scure si intravede un cane a riposo.

Un canile aperto, una novità assoluta. Mentre passeggio chiamo la signora Rosa, parliamo un po’ e la sento placidamente sorridere dall’altra parte del telefono. Raccolgo qualche pianta grassa mentre con sguardo circospetto osservo che i pochi passanti non mi vedano… quando ad un certo punto, al secondo appostamento, vedo sbucare Paul in scooter. Mi coglie sul fatto dicendomi ‘what’re you doing, fucking bastard!..’ gli sorrido imbarazzato come un bimbo colto con le dita nella marmellata. Cerco i sradicare un pezzo di cactus prossimo alla morte e mi restano due enormi spine conficcate nelle falangette… con la mano che stringe la solita immancabile sigaretta appena accesa, mi indica alcuni pezzi di cactus che si trovano a terra e li raccolgo. Per ringraziarlo, non appena salgo sullo scooter gli passo il pezzo di graptofolia spinosa sulla schiena bruciata. Latra sollennemente qualche insulto albionico. Paese, sigarette, camping. Relax time, birre a nastro, una dopo l’altra. Ce la ridiamo cercando di insegnare qualche parola da imprimere nella corteccia cerebrale dell’inglese. Niente, rifiuta la lingua di Dante. Passeggiamo per il paese, stasera pizza all’Ancora, dove una fiumana di persone accompagnano il sacro stendardo mariano e la di essa statua policroma in pole position, prima del trasporto finale in chiesa. Nilde sbuffa come un tegame di lenticchie e con la solita dimestichezza che la contraddistingue nel avvolgere del tabacco, impreca contro i seguaci, la chiesa, i proseliti e accende scoraggiata la sigaretta la cui punta s’infiamma come un rogo. Nilde indossa il ‘miceneo’ una palandrana argentata in mussola con stringhe sulle spalle. Le sta bene. La miglior pizza a memoria mia. Croccante al punto giusto, soffice, ben guarnita e non unta. Top. Ciondoliamo per il centro riguardando le stesse ridondanti cose. I due companeros vorrebbero rientrare, oggi sono stranamete lazy, tutti e due. Paul viene  invitato alla festa degli universitari, ma diserta all’urlo di ‘I wanna thill, not kill” che suona più o meno come un invito alla preservazione della sua persona lontana dall’etilico… …Quando tramonta la luna li porta con sé, ma io continuo a sognare negli occhi tuoi belli, che sono blu come un cielo trapunto di stelle…Caro Modugno.

23 settembre

Nanna, sogno la mia nonna. Piangente e dolente, con le guance rosse. Una cosa già vissuta e alquanto strana, nella sua casa, arredata alla stessa maniera, un’intrusa, cerco di leggere dietro a dei santini delle date. Sogno di una lite con un nuovo vicinato, mi danno un numero. Proverò a giocarlo. Mi sveglio nervoso, forse sono le morning alarm di Paul che suonano ripetutamente; anzi, no è il vicino di bungalow che smonta al solito la stanzetta. Stamani ha il frigobar che non funziona, Paul, che si sveglia al solito non appena tocca la porta, mi dice: ‘Fucking male (al vicino…) every day cleaning room before sun rise… fuck’in…’ Da Giugurta, mentre ancora fatico a separare le palpebre e claudico sull’asfalto, Gasparino e Nilde intavolano un’assurda discussione sul tempo; Lei: …fa freddo, soffia lo scirocco… Lui: …ma no, col maestrale tutto torna a posto… Lei: …si ma c’era l’umidità sulla sella del motorino… Lui: …sarà ventilata e secca… vabbé, mettetevi d’accordo… le nubi restano imbalsamate in cielo sbattute un po’ a destra e un po’ a manca da venti antagonisti. Parzialmente sereno, la baia viene percorsa da un aereo di pronto intervento e da una barca della Guardia Costiera. Tutto fa pensare che potrebbero esserci barconi in arrivo. Ma nulla, dopo un po’ rientrano, meglio così anche se questo mancato allarme ti lascia sempre con un pensiero appeso alla corteccia, speriamo dall’esito positivo. Oggi indosso nuovamente il mio slippino color labbra di Cicciolina, le più comode. Nilde saccheggia di nuovo il venditore pakistano, si lancia sulla cima di tessuti come una gabbiana su un pranzo dimenticato in spiaggia, irriconoscibile. Paul indossa una camicia bianca che ne completa al pieno l’immagine da moscovita in vacanza a Viareggio. Pomeriggio daltonico spalmati sotto un sole che sembra indossi occhiali dalle lenti fumé. Coperto sotto un telo indiano da quelle quattro gocce che lacrimano dal cielo a tratti plumbeo a tratti sereno. Un paio di partite all’impiccato mi vedono agonizzare sotto l’audacia di Nilde che non perde occasione di mettere alla prova il mio cervello atrofizzato dal sonno e dalla piena esposizione solare. Roooonf….roooonf…. a metà del meriggio, dopo aver ingoiato un arancino dal peso specifico di tre, mi lancio in mare. È cosi che a pochi metri dalla dagli scogli, in acqua abbastanza alta, vengo prima cabotato da una medusa che prima mi sfiora leggermente, per poi avvinghiarsi attorno al braccio sinistro. Mi dimeno, un male becco, considerando che poi nella medesima parte del corpo ho un’altro arto in difficoltà, ed è la caviglia. Forse era l’unica medusa in mare quella che ha deciso di accarezzarmi. Alzo le braccia sperando che i miei compagni mi osservino e vengano almeno a darmi una mano. Paul, cementificato dietro ad i suoi occhiali alla Tom Cruise, sembra mirare i suoi piedi accavallati, ma in monocuolare prospettiva, vedo che sta leggendo. Nilde, spalmata tipo star-fish sulla sdraio, mi guarda e mi fa palmetti palmetti con i piedi sincroizzati, come per salutarmi. Il mio dramma dura qualche minuto e termina sul bagnasciuga in una petulante richiesta di aiuto. Corro verso di loro con l’avambraccio proteso, vorrei urlare ma mi accorgo di essere troppo grande per farlo. Per cui faccio leva sul mio self-control (che possiedo in minime dosi) e mi accascio. Di tutto punto la dottoressa non ha idea migliore che intimare Paul ad aspergermi il braccio di urina. Mi rifiuto ancor prima che lo faccia lui, o meglio, lo facciamo all’unisono, non potrei mai più guardarli in faccia… Lui propone dell’aceto io come reazione ponderata alla prurigine, mi gratterei, anzi levigherei il tutto con la sabbia. No, Nilde mi spedisce al chioschetto spiaggia per recuperare dell’ammoniaca, ma soprattutto per avvisare i genitori che magari non è il caso di lasciare i piccoletti in mare. Diniego, mi rimbalzano dicendomi che le meduse in fondo ci sono ovunque, io ribatto che secondo me era molto grande quella jelly fish, per cui forse… chiedo cortesemnete dell’ammoniaca e prontamente vengo cosparso da una crema antipuntura all’aloe che al modesto compenso di 8 euro mi vene poi lanciata in mano… rientro dolorante, nel frattempo un’altra ragazza viene morsa, accorro per portarle la crema ma nel frattempo nel baracchino, la novella infermiera ha già venduto un’altra confezione di magico unguento.. Rientro affiancato dalla damigella parmense che mostra in posa vanvitelliana la sua coscia lievemente segnata, mentre io mostro la mia incrostazione gelatinosa fatta escoriazione 3D simile alla glassa della cassata. Brucia, ma sembra lievemente meglio. Al camping – pub o’clock – per rilanciare poi l’escursione serale nella movida insulare. Appiccicato a Paul, con lo scooter senza luce anteriore seguiamo Nilde che sfreccia impavida omettendo le frecce di direzione, occupando la strada in posizione centrale e soprattutto oltrepassando la gendarmeria che non fa un plissé in barba alle leggi stradali di obbligo al casco – helmet – come definisce Paul. Il ristorante è al vecchio porto, di fianco alle vestigia di due edifici parzialmente sgretolati il cui color porpora affianca l’altro di un blu prussiano, entrambi dalle finestre incorniciate cremisi. La Locanda del Vecchio Porto è un angolo dall’allure magrebina molto interessante, tipico dei riad nordafircani, bello, bellissimo, la cui proprietaria timidamente sottolinea la scelta dell’arredo e dello stile arab-minimal. Calici di vino si susseguono, ci raggiunge Andrea e la cena inizia felicemente e corre leggera sotto le tende dei gazebi antistanti. Di fronte il sole sparisce in lontananza regalando la più bella immagine che si possa immortalare, la foto della vacanza, il vecchio porto, la vita e le speranze, mentre una barca della guardia costiera rientra, ci sono esseri umani che fortunatamente ce l’hanno fatta, per la vita, per la libertà e per quanti ancora sognano di essere altrove senza questo estenuante viaggio. La ferita duole, mi faccio portare il ghiaccio dalla bella cameriera finlandese che ormai parla lampedusano. Salutata Andrea, su per il centro, al 13.5 un super locale che esonda all’aperto su spazi e piazzetta adiacente, secondo carico di beverage ad alto contenuto alcolico. Nilde si dice sfascenta, Paul, canta all’unisono tutte le canzoni del crooner rasta che dal palchetto strimpella Phil Collins, Cat Stevens e Terence Tred d’Arby,  agitandosi come urang-utang sulla sedia. Doppio giro di bevande. K.O. Rientriamo sfrecciando tre le viuzze senza luce, solo una flebile ed impercettibile luna non bastano a stanare le buche disseminate sull’asfalto delle impervie vie. Ridiamo come matti sbattendo i denti per il dissesto stradale e per il freddo. Al rientro, vengono sequestrate le chiavi al prode inglese che si accomiata con sorriso da futuro peccatore e si dirige al bar. Sul suo viso aleggia la dissolutezza della notte che ha da venir… e di cui non v’è certezza. Leggo. Notte.

24 settembre

Risveglio al solito suono delle fanfare, quel demente del nostro vicino punta la sveglia alle 6.30 e la lascia suonare per una decina di minuti. Sono divorato dalla zanzare, e per giunta la ferita al braccio si fa sentire come olio bolente. In camera Paul-the-Animal non c’è, ma appena apro la porta lo vedo spalmato con sorriso alquanto ebete al tavolo su cui già ronzano allietate dal viscido manto alcune mosche. È troppo troppo out. L’elenco interminabile di bevande ingurgitato dura qualche minuto. Entra e si spalma sul letto. Tipo stella marina. Una croce ad imperitura memoria, si sulla sua ultima giornata di vacanza. Colazione e poi cerco di minimizzare i rumori cambiandomi e preparando lo zaino per l’ultima giornata di mare, anche se all’alba una leggera pioggerella fa ben poco sperare. Intorno a Paul e al suo giaciglio, aleggia un odore dolciastro, un miscuglio di malto e vodka e ketchp, di non ben definito, ma certamente qualcosa al di sopra dei 40 gradi. Scooter bucato, avvisiamo che lo specchietto rotea rotto sul suo perno come banderuola segnavento. Sopraggiunge il fidanzato della figlia del proprietario che ci frucca, qualsiasi cosa sia successo, è colpa nostra, sia perché non ce ne siamo accorti, sia perché non abbiamo avvisato subito. Nilde lo rimette a posto, cercando di spiegare a quel genio che tutto era accaduto tra le undici di sera e le otto del mattino, invitandolo a cambiare tono. Qualsiasi cosa sia successa ci viene rigettata addosso come rimprovero, come se bucare fosse una colpa. Spiaggia alla Giugurta (Guitgia, ho imparato il nome ma ormai in testa mi resta il nickname appioppatogli). Nilde indossa uno scamiciato color glicine, sembra Maria Antonietta  in preda a istinti provenzali, nei giardini dell’Haimeau. I segni lasciati dalla medusa han disegnato delle belle tracce tentacolari  simil-craclé di un color rosso melograno. Prudono come frustate di cilicio. Mi sono ripromesso di nuotare parecchio per silenziare l’orologio contapassi  che causa invalidità, non fa altro che fruccarmi invitandomi al movimento… Passeggio in acqua con Nilde che raccoglie meticolosamente minuscole ed impercettibili forme crostaceiformi e me le dona, come schizofrenico omaggio. Passeggiamo per un po’ fino alla scogliera ad ovest, mi vuole mostrare una signora che da lontano rapisce la sua attenzione. Il bruno colorito della pelle la incorona Miss Bronze Beach 2016; la vedo osservare attentamente quella signora color ebano, non si capacita di come si sia così ben conservata. Ne apprezza anche il costume intero… bha…  a volte è cosi strana… di ritorno, in questo mare color Levissima, gruppi di salpe incrociano quelli delle piccole occhiute e si ricompongono in ranghi serrati, per poi sparpagliarsi al passaggio di ogni bagnante; ciclo perpetuo di parallele ombre che si muovo a pochi centimetri dal fondale. Di Paul non v’è traccia, forse non è ancora riemerso dal carontico pisolino post-sbornia. Riemergo soddisfatto dall’appagante nuotata, persino il carceriere tecnologico che porto al polso si complimenta per la performance. Due fette di anguria un po’ insipida, quattro ciacole con la Giusy e ritorniamo alle postazioni. Ho appena finito di leggere il mio secondo libro che mi è piaciuto trattandosi oltretutto del mio primo giallo magrebino. In lontananza la solitia barcona dalla forma di pantofola metallica sembra intenzionata ad entrare nella baia. Riemerso dalla seconda appagante abluzione marina, sul bagnasciuga, facciamo una partita all’impiccato, finché però veniamo illuminati dal desiderio di mutarne le regole e prontamente ne inventiamo uno tutti nuovo: si chiamerà il Bitonto – due volte tonto – in memoria del nostro caro N.C.; dunque, il gioco si svolge più o meno come l’Impiccato, ma con due sole regole in più. La parola può essere unita ad un articolo e le vocali possono essere trascinate e quindi duplicate, triplicate o quadruplicate a piacere, proprio ad imitare il modus exprimendi della musa ispiratrice. Al posto dell’ometto appeso, nel caso uno perdesse, comparirà una canna rettangolare con due fumate a ‘s’. Ce la ridiamo come matti, tanto. Pisolone poi altre partite; divertente il nuovo gioco di società. Alle 17 faccio l’ultimo bagno in questa carezzevole acqua cristallina, un po’ per baciarla con il semplice contatto delle labbra, dei palmi, mi congedo. Appena risalgo, trovo Nilde appallottolata, con aria afflitta e all’urlo ‘…che cazzo di freddo’ arrotola la sigaretta con nipponica maestria, come se piegasse origami. Mi implora con gli occhi di risalire…Svettiamo verso il camping. Incrociamo Andrea che trascina seco un carrello arrugginito, che con l’aiuto di un ospite, vorrebbe smontare e trasformare in carrello di sostegno per il suo leon berger che claudica. Dall’alto della salita si nota la dolomitica sagoma di Paul, che ci rincuora, segno ineluttabile della sua ripresa. Il motivo per cui non ha risposto al telefono è semplice, l’ha distrutto sedendocisi sopra. Ci racconta di aver fatto una scorreria in paese per acchiappare del pollo arrosto e un arancioni. Sul tavolo giace silente una bottiglia di birra quasi al termine ed il feretro del suo cellulare che magicamente ogni tanto sibila agonizzanti note di un,irriconosvibile melodia… I mici mi rincorrono ed è cosi che apro le tre scatolette di tonno, cercando di suddividerle in modo da poterli sfamare tutti. Sono cosi graziosi anche quando si arruffano. Paul mi da uno strappo in paese, deve prendere le sigarette mentre io vorrei acquistare qualcosa che segni la vacanza (anche se ho già piante e sassi). Acquisto un anello ed un paio di altre cose. Ritorniamo sfrecciando sulla sinistra alla maniera inglese, io non me ne accorgo, me lo fa notare Paul, lui stesso autista che se la ride, in fondo non abbiamo manco i caschi. Vabbè. Al rientro Nilde si è già detersa e cerca di infilare un bagaglio nella prenotazione aerea già effettuata. Paul estrae il suo chicken bag e lo azzanna famelicamente. Sarà la sua cena, ha deciso di mettersi in autopunizione stasera… manca però l’arancino dal pacco alimentare e si che l’ho visto anch’io sbucare dalla confezione. Che siano stati i gatti? Bha… cena in terrazza, non ci facciamo mancare niente. Matteo, il cameriere, ci serve con la sua ieratica andatura serpentina tutte le portata in filata. Facciamo persino scarpetta dell’impepata di cozze con due cesti interi di pane al sesamo. Osservo Nilde che indossa il lungo vestito di mussola color grigio chiaro con le spalle arricciate, il famoso ‘micieneo’ e mi sento come Ulisse con Penelope al banchetto di Itaca. Sorride e la osservo perché a lei devo tutto questo. Maschero il mio grazie (ben più importante e solenne e costruito nel tempo), con quello all’avermi invitato a Lampedusa. Al tavolo di fianco arriva una coppia, lui facocero trasbordante, lei bella straniera dai toni mediterranei. Molte le nostre supposizioni, alcune legate al papponaggio. Dolcetto finale. Alé. Paul è già allettato, legge. Io e Nilde ci facciamo un paio di partite di Bitonto, cercando di perfezionare lo svolgimento. Ne mutiamo il finale; anziché la canna fumante, ci sarà un angelo alato e aureolato. Punto la sveglia, spengo la giornata con il dito che corre sulle lancette digitali del cellulare. Alle 7 il risveglio per quello che sarà il ritorno. Sogno di trovarmi ad Alex con Nilde, di passeggiare tra le fatiscenti vie del centro costeggiate dalle facciate nello stile della ville lumiere coperte di fuliggine. È sera, Nilde non sembra interessata a quella che a me sembra il non plus ultra dello shopping. Negozi di antiquariato, luci flebili e aria malinconica. È attratta però da una bimba che per strada possiede un piccolo banchetto molto elevato dal marciapiedi su cui poggiano oltre ad un paio di confezioni di shampoo, un calco di una moneta romana in pongo blu e un anello, sempre dello stesso materiale, ma verde scuro. Tutto poggia su una tela cerata gialla, illuminato da una lampadina. La bimba ha i capelli lunghi e sorride. Passeggiamo fino all’ingresso di un negozio ancien regime, dalla cui facciata si intravedono ovali in bassorilievo in terracotta della regina Elisabetta; dentro, una signora, certamente la proprietaria parla con qualcuno di come sarebbe possibile sistemare al meglio le ante in legno della credenza che contiene dei rubinetti incalcareati a forma di cigno, piccole lampade a olio con coperchi a valva di conchiglia e una moltitudine di campane da pascolo per bovini. Non acquisto nulla perché Nilde rompe le balle, si anche nel mio privatissimo sogno. Uscendo, ritrovo un bel torrente dalle acque trasparenti costeggiato da un’alta riva dalla rossastra, un muro antico sulla destra, e il mare di fronte. Lo attraverso scavalcando un bel albero dalle radici levigate che si adagiano sulle mura. Finish!

25 settembre

Alba, fanfara del coglione di fianco che alle 6.30 suona come nemmeno in una caserma. È tempo di tirarsi su e fare le valige. Le zanzare hanno planato a squadroni in lungo e in largo per tutta la stanza, lasciano però solo qualche piccolo segno sulle mie braccia e forse preferendo Paul, per la saccarina secersa dalla sua pelle annaffiata. Dieci minuti e le valige son pronte. Voglio imprimere questi ultimi passi a memoria per l’inverno che verrà. Il cielo è plumbeo e  sembra schiacciare l’esuberanza marina sotto di sé. È vuoto e grigio, ma è pur sempre il mare. Quello che porta, da e toglie, vivo anche quando lo si lega a episodi luttuosi, sagace e illimitato. Incontenibile nelle sue emozionanti screziature color melange.

Moyseion

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