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Sicilia occidentale

Sicilia occidentale

Trapani, Palermo, Marsala e i resti delle antiche civiltà...

Departure-icon 03/10/2015 - Arrive-icon 09/03/2015 2

Questo è una vacanza particolare, è il regalo del compleanno che il Lemure ha deciso di trasformare la Crociera sul Nilo (visto l’inasprirsi della situazione araba) e commutarla in un Sicilia Trip di cui covavo nostalgia e desiderio. Sono esattamente 18 anni che manco da questa terra, ed ora che mi trovi qui, non capisco il perché di tanta e prolungata assenza. Partiamo da Lodi, un treno per Parma, un’ora dall’autunnale atmosfera uggiosa della pianura, e poi ancora un’ora e mezza dall’isola del sole. Io e Vale molto emozionati, è un lusso (e mi ritengo molto fortunato a goder di due tali fortune, lui, in primis e una vacanza fuori stagione), mai fatta prima d’ora. Siamo a Birgi, alle 21.00. L’aria è quella delle campagne viste nella trasmissione ‘Chi l’ha visto’ durante la stagione precedente. Chilometri di campagna buia che nasconde desiderio e riservatezza, natura e cespugli illuminati da fioche luci color senape. Gli oleandri fluttuano morbidi al vento serale, l’aria è impregnata di mare e i colori sono quelli del presepio che appare magicamente nelle chiese durante il periodo natalizio. Lo chaffeur ci accompagna a Trapani, in Pepoli, di fronte alla mastodontica chiesa della Madonna di Trapani. Un gigante incastonato nei dedali cittadini color cremisi. Un gioiello che alle luci vespertine brilla come una goccia di resina appesa ad un albero. Raccogliamo l’auto di famiglia Lemure, si va al b&b di vicolo Rallo, Duci Duci, una splendida location risistemata, con tre appartamentini stile Shabby Sicily disposti su tre piali. Nella, la proprietaria, ci accoglie inseguendoci in scooter con il marito, (dopo averci chiesto di che vettura eravamo dotati), sventagliando la mano. Accostiamo, io scendo coi bagagli e Vale segue il marito in direzione di non so quale parcheggio autorizzato. Rientra dopo qualche minuto, in scooter senza casco, ovviamente, mentre lei ci accoglie, visitiamo lo splendido appartamentino. Giù i bagagli, si esce, molto appetito mentre aggiriamo il lungomare, pieno di gente, profumi di splendi pietanze intasano l’aria. Vale si illude di entrare da Calvino, dove ovviamente ci rimbalzano per il tutto esaurito e la non promessa di un posto a sedere. Ci spostiamo poco più avanti, da Jolanda, una frammentata pizzeria in piazza, suddivisa in due mega gazebo. C’è strapieno, ma ci garantiscono l’efficienza. Tanta è la fame che ci accodiamo e ci accomodiamo. Sono le 22. Le pizze sono arrivate alle 23.50. Raccogliamo i filamenti di acquolina, a volte osservando attentamente nei piatti altrui quasi a volerne teletrasportare gli avanzi. Ottima. Rientriamo passeggiando, scuotendo il metabolismo per attivare la digestione che arriverà solo all’alba. Torre di Ligny, posta nel capo estremo della pinta cittadina, dove lo Ionio abbraccia il tirreno, si perché Trapani è anche questo, una falce che divide, come il suo nome greco stesso racconta, Trapani, da Drepanon ‘falce’. Welcome to Bozzalnad!

Giorno seguente.

Risveglio, tazza di caffè e vortici di sensazioni che accendo il cuore e la mente. Per tutto. Usciamo come due scolaretti in gita, è molto carina Trapani, con le sue mura giallognole. Uscendo sulla destra, osserviamo un riparatore di reti, che chiuso nel suo bugigattolo, tesse come un ragno il suo arnese da lavoro. Qualche metro dopo, osserviamo un signore anziano che intarsia pietre e tufo. Ci avviciniamo, si presenta come Giuseppe Barbera, uno sculture famoso locale, che vive da tempo a Genova e che rientra a Tchàpani per trovare figli e famiglia. Ci omaggia di alcune sculture da lui realizzate. È un signore elegante sulla cui pelle si adagia una vita da sognatore, in una casa totalmente incastonata di opere da lui realizzate. Una bellezza unica nel suo genere. Lasciato questo vicolo di sogni ed arte, siamo andati nella chiesa della Madonna, durante la celebrazione della messa, dove un prete di colore, cantilena una predica assurda sulle famiglie convenzionali, sulla proliferazione e qualcos’altro che puzza di paranoia omofoba. Esco disgustato da questo, come se fosse prerogativa di un prete africano discutere su quanto Dio ha da dire in merito, lui cresciuto in una terra arcaica ed educato in una scuola misogina e eterodossa come il seminario. Pfui. Si entra nel Chiostro del museo, un cortile spettacolare contornato da frammenti marmorei dovuti probabilmente dai crolli sismici, ingresso, teche vuote segno di una recente mostra su Bulgari antecedono l’eburnea scala con i corrimani intarsiati verso l’ala superiore del museo.

Stanze e stanze di dipinti, parure in corallo, abiti talari e tele, di cui resto impressionato da un pittore (di cui non ricordo il nome…) che dipinge decadenti prospettive di ruderi greci e romani. Pavimenti in ceramica decorata, altari e mobilio ecclesiastico. Un vero tesoro di quella che è stata una parentesi artistico culturale siciliana degna di nota. Macchina. Funivia e via per Erice. Questa è la città che ha visto i natali del Lemure, in una casa forestale di 38 anni or sono, durante una passeggiata della sua gestante genitrice, che ha ben visto di portarlo alla luce in un bosco, proprio come un selvatico suricate. Sono felice di essere qui, con lui, nel nostro piccolo mondo fatti anche di ricordi intersecati ed in parte condivisi. Queste veloci capsule a forma di uovo, in poco più di mezz’ora ci portano in vetta, un meraviglioso avamposto che è sfida alla natura e al contempo cuore di essa. Una sensazione frizzante alle prime ore, dove una sottile nebbia accompagna noi e orde di francesi per le vie lastricate da un simpatico ed elegante motivo a quadrati. Visita alla cattedrale di Erice, dove Vale mi informa essersi sposati i suoi genitori. Qualche passo verso corso Vittorio Emanuele e sostiamo in uno verdeggiante e uggioso giardino a più terrazzi. Inghiottiamo due genovesi a testa. Cabotiamo lungo l’arteria principale inseguendo un percorso che sta più nei depliant degli infopoint turistici che non nei nostri progetti, assaporando le bellezze di questo carillon color grigio perla che ruota intorno al suo asse, la semplice eleganza della pietra. Il sole inizia a sgomitare contro il manto nebuloso, ed è così che la grazia della valle si mostra in tutto il suo splendore ai piedi del Castello del Balio, una stupefacente struttura difensiva, dimora degli ambasciatori presso i bizantini di terra genovese. Il ritorno è un susseguirsi di piccole tappe cercando di raccogliere qualcosa di nostrano, ma che si riassume con dei tappi di ceramica e un anello in corallo per la mamma di Vale. Saliamo la torre del campanile, finalmente trafitta dai raggi solari che accarezzano le sue pietre levigate dal vento. È quasi l’una e la salita coi suoi 108 gradini non è cosa da poco, ma è l’ultima fatica ericina. Godiamo del panorama, godiamo di te, Erice. Una volta scesi, la funivia ci accoppia a due slavofoni la cui parte femminile indossa short-rally-short pants, ed una felpa in ryon a stampo jungla tropicale con la discreta scritta ‘cocaine’ in font shelley, mentre lui, polpaccio che unisce la caviglia al ginocchio con una curva assiale quasi anormale. Scendiamo, osservando che a differenza dell’andata, sotto alla funicolare, non corrono più le moto cross a velocità supersoniche. Terra, macchina e signor artista Barbera che ci attende con delle sorprese. Acquistiamo, cambio abito e sosta a casa e via per le saline. Sulla strada incrociamo il primo mulino WWF che finire fiabesco è poco. Sembra lo abbiano sradicato dall’Olanda per piazzarlo qui, che su specchia in 20 centimetri d’acqua, adagiato su un enorme cubo in pietra. Profumo di sale, mare e di nuovo saline. Chilometri e distese di sale, brillano come enormi mammelle in riva all’acqua che, scaldata dal sole luccica e si incipria di un rossastro colore molto caldo. Sembra un sogno, invece è la realtà. Strada facendo il Lemure, alla guida salda del veicolo fuma rothmans e commenta alcune canzoni dei Dire Straits date da Virgin Radio che gli ricordano la gioventù trapanese. Non mi sembra vero si apra a dei ricordi, sempre spesso chiusi a chiave e a volte quasi irreali, dal momento che l’individuo è privo di memoria sociale. Proprio passando da Marausa, sforna un paio di nomi, tal Marco che abitava in una villetta li nei pressi, ed una sua amica, la cui casa ora è un hotel. Costeggiamo il mare alla ricerca di un angolo dove sollazzarci ed invece restiamo delusi da una zona che definisce ‘caduta in disgrazia’ bah… Quattro punk escono dalla spiaggia ed alla domanda precisa di dove avessero trovato un luogo adatto, ci dicono sereni di essersi gettati dal pontile, che più che definirlo tale, sembra un’enorme barriera architettonica… Proseguiamo, sono le 16.00 e Vale esaudisce uno dei miei più atavici sogni: Mozia, la Mothya greca, Mtw punica. Da un angolo incantevole con imbarcadero e bar, attendiamo una piccola nave che in poco meno di dieci minuti ci riverserà sull’isola. Un mulino a vento, come faro imponete veglia l’ingresso che delimita la salina dal molo, trasformato poi nel museo del sale. Guardiano bianco e scaldato da un sole che dall’orizzonte inizia a velarsi di rosa. Partiamo. Mozia è stata una città insulare, ben fortificata e collegata alla terraferma da una strada lunga due stadi, che al momento si trova a meno di un metro sotto al livello del mare. È incantevole già da lontano. Vale si esercita con acrobatiche riprese che mi mostra poi suscitando commenti poco professionali sulla ondeggiante rotta intrapresa. Mozia, è stata spesso contesa e osteggiata dalle costiere Selinunte e Segesta, per poi esser distrutta dai siracusani dopo uno spietato e azzerante assedio. Così ben distrutta da risparmiare solo qualche cenotafio e i basamenti fortilizi. È impressionante come nell’antichità si desse così importanza allo smembramento totale, agli occhi attuali sarebbe stato meglio non disperdere energie nel demolire, ma è anche vero che agli occhi moderni, un assedio e una guerra di per sé risultano essere cosa evitabilissima. Oggigiorno, l’isola di San Pantaleo, ospita parte di un convento, un museo ed un’area archeologica ideata da Joseph Whitaker, archeologo e proprietario dell’isola che ne ha riportato alla luce ruderi, cimiteri ed opere d’arte, come la statua del seducente Giovane di Mozia. Passeggiamo lunga la strada sterrata principale, raccogliendo qualche conchiglia, qualche pianta rurale e qualche sasso. Diretti al mare, incrociamo il quartiere del Khoton, l’ex porto/ammiragliato e ne percorriamo le mura, o meglio, i ruderi rimasti. Le onde lambiscono la spiaggia ghiaiosa e le cicale rullano nei boschi di pini marittimi e donano al posto una naturale orchestra sinfonica. Imbarcadero, ultima corsa verso la terraferma, pochi minuti e siamo sulla costa, dove il magic moment sta per trasformare tutto in una pittoresca immagine dai toni caldi.

In auto assaporiamo questo spettacolo, tra i flessuosi giunchi che separano l’asfalto dal mare, in radio danno ‘like a rolling stones’ cantata proprio dall’omonimo gruppo. Siamo felici come possono esser felici due persone soddisfatte del loro essere, contenti del domani sequenza di un interminabile presente. Marsala. Venti minuti e parcheggiamo nello sterrato di fianco al Cine-Impero che Vale mi descrive come goliardico e che invece trovo ‘piacevole’, perché nel suo essere fascista, è comunque colorato e poco austero, sembra un set in polistirolo preso da Cinecittà e messo angolarmente di fronte ad una delle porte più belle della città. Marsala è circondata da mura, illuminata da luci gialle, meraviglia delle meraviglie, solo un parco ricoperto da un’insensata moquette verde rovina il trionfale ingresso in quel gioiello borbonico. Lo sbarco dei Mille deve aver lasciato sbalorditi quel manipolo di soldati giunti da nord per ricucire le Due Sicilie allo stato sabaudo, e cosi, proprio passando per quel corso intitolato al re Vittorio Emanuele che si va verso la piazza della cattedrale, che si giunge in centro. Non mi voglio ripetere, resto impressionato dalla bellezza e dalla cura. Attonito, mentre Vale sfreccia a destra e sinistra cercando un ristorante dove accucciarsi, io godo di un elegante splendore barocco. Ci accomodiamo al Vaccari 6, un bel posto nascosto tra le vie del centro, abbastanza vicino per farci udire gli schiamazzi dei ‘bozza’ che sfrecciano appiedati o al massimo con qualche passeggino adornato da marmocchio per le lucide vie lastricate. Ottima cena, davvero buona, ed esteticamente appagante. Torniamo verso casa. Una volta parcheggiato, nemmeno il tempo di una doccia e crollano le palpebre su quella giornata davvero ricca. Grazie Lemure!

Il dì seguente.

Ci sveglia il mostro elettronico da cui Gennaro Cosimo Parlato a tratti lancia urla… Io canto al rimo dl dolce tuo respiro…. Interruzione…. Riprende… Interruzione. Sono le 8.30, il vociare dei fanciulli che entrano a scuola, ci leva dal talamo. Doccia, caffè e valigie sono le priorità. A seguire il signor Barbera, (assente, è andato a pescare) poi bar, brioches e via per Segesta, unica tappa prima di Palermo. Il panorama circostante è totalmente agreste, vigneti ed uliveti, bagli abbandonati, casolari al sole, alcuni ancor vivi, altri che mostrano cadenti inferriate come dentiere mal rette da anziane e vissute bocche, quasi a volersi raccontare, a qualcuno desideroso di ascoltarle. Segesta stazione, no, non Segesta stazione ma Tempio, ed è così che il navigatore del telefono ha cercato di depistarci, vuole forse custodire quella meraviglia di Magna Grecia in terra italica? Già dall’ingresso è possibile percepire la grandiosità del monumento, ben conservato e decorato con polverosi viottoli in ghiaia bianca, mostra persino qualche inappropriato vessillo fascista, con picchetti di fasci, asce ed aquile. Il tempio è enorme, tanto quanto il lasso secolare che lo ha sostenuto. Possente, il tempio per antonomasia, quello che sin da piccolo disegni, quello che associ alla Grecia, alle divinità gentili e che rappresenti con un frontone triangolare retto da colonne pari o dispari su tutto il suo periplo quadrangolare. Marmo. Elegante, senza il rivestimento del tetto sembra davvero un ponte verso il cielo. Il sole è caldo, anzi scotta e mancano ancora l’acropoli e l’anfiteatro da visitare. Come nei migliori detti turistici, a veder il Partenone di Atene, si va a mezzodì. Ed è cosi che tre chilometri a piedi in salita sotto ad un sole cocente, è stato un ordine impartitoci da un calvo signore in hogan e pashmina color jeans appollaiato nella biglietteria sula rampa principale, all’urlo di ‘siete giovani’ ad obbligarci alla ripida salita. Morti. Raccolgo rami di liquirizia selvatica lungo il cammino, ed in salita scorgiamo enormi salamandre che corrono tra i massi. Ruderi di una moschea, di una chiesa e della bulé (buleuterion cittadino) il parlamento, che anticipano l’anfiteatro. Ben conservato, le cui spalle poggiano su un costone del Monte Barbaro, e che si apre su una vallata pittoresca da cui in lontananza, come un lungo biscione, la superstrada sembra corrergli introno. Chi ha distrutto Segesta (oltre agli scontri fratricidi con le altre colonie greche) lo dice una targa che recita: … Distrutta dai Vandali e mai più ripresasi. Divenne avamposto bizantino, arabo e normanno, per poi cadere nel dimenticatoio. Chissà per quale motivo una così meticolosa devastazione ha lasciato in vita il tempio e l’anfiteatro. Misteri della storia. Sosta e partenza, gioia e stanchezza, due schweppes e quattro sigarette, si parte per Palermo, dove alle 13.30 abbiamo appuntamento presso via Lincoln angolo via dei Mille. Sulla strada in direzione del capoluogo, Panormos (tutta porto, in greco) passiamo per Capaci, dove due obelischi segnano il punto in cui Falcone, eroe, è stato fatto brillare insieme ad altre vite innocenti, e a tanta ingratitudine per il loro sacrificio. Vale mi induca in lontananza un edificio bianco, forse una cabina enel style ad una L ribaltata, dove una scritta ‘no mafia’ indica il punto in cui è stato azionato l’ordigno.

Palermo calda e caotica ci fluttua attraverso, inarrestabile e decadente, piena, satura ridondante e vera. Ci urla addosso, anche mentre nell’abitacolo dell’auto attendiamo la sorella di Daniele che ci consegni le chiavi. Siamo poco lontano dalla stazione dei treni, in direzione mare. Daniele ci chiede di andare presso l’abitazione della consanguinea creatura a prenderle, perché impossibilitata. La ragazza scende, è chiaramente sotto l’effetto di qualche barbiturico, sedata. Calma e tenera coi suoi occhi azzurri, saltella tra una gamba e l’altra e ci da minuziosa descrizione delle tre chiavi da utilizzare. Siamo praticamente in una ‘gabbia’ dorata, al terzo piano di un palazzo rinascimentale siculo. Appartamento stupendo, con ceramiche locali al pavimento e scale a chiocciola moderne che si stagliano tra soffitti in travi di legno. Dopo la doccia faremo giretto al mercato di Ballarò per spesa, stasera cucineremo in cada. Poesia. Il sole non da pace, due arancini ed una coca light e poi mercato. Il tanfo è forte. Odore di Cairo ovunque, l’idioma è spesso incomprensibile. Spesa, mozzarelle, pomodori, caffè, maltagliati, fichi d’indi! formaggi e pane. Tutto per sembrare una famiglia sicula, stasera tra i pavimenti ricamati e la musica giusta che fluttua tra le finestre aperte, dove la brezza marina si intervalla ai clacson e al traffico che non accenna a dar tregua ai timpani. Cosi me la vedo. Rientriamo a parcheggiare gli acquisti. Poi di nuovo fuori. Al momento il contapassi segna 7 km effettuati, e devo dire che il Lemure non perde occasione per sottolineare la sua prodiga atleticità nonostante indossi delle clarck color tabacco, mio passato regalo, forse il primo. A passeggio per questa meraviglia, dove alzando si viene rapiti da arte e bellezza, oltre al sole e a tutti i suoi colori. In via Maqueda avvistiamo la tricupolare chiesa di San Cataldo, fiero monumento cittadino, con il suo campanile a parallelepipedo, decorato, fratello bastardo di una chiesa che sembra tenerlo in disparte, accostandolo alla Santa Maria dell’Ammiraglio, incredibile opera di Giorgio D’Antiochia, nel cui interno pavimenti in marmo intarsiato, mosaici e una targa all’eroe albanese Scanderbeg. La cosa mi incuriosisce e mi fanno chiedo alla addetta info riguardo al significato di quella targa, e lei molto gentilmente mi sciorina racconti su comunità greco-albanesi, concattedrali, vescovi, patrone e altre cose che mi fanno venire il cerchio alla testa. Palermo è la gioia per gli occhi, e un colpo all’olfatto. Perle architettoniche secolari, storia accumulata su ere precedenti, punici, greci, arabi e normanni tutto stratificato come un’ineluttabile ciclo cosmico, una cheesecake da assaporare, il cui aroma è cibo, vita e morte, decomposizione, coi suoi cassonetti traboccanti di immondizia, incessantemente alimentati da un formicaio umano di carretti che getto nei lori interni ogni cosa. Vulcani di batteri che costellano le strade e che giacciono ai piedi di bellezze indescrivibili, come a raccoglierne un poco di traboccante gloria. La vita, il turismo e la città generano anche questo. Giro, fontana Pretoria, piazza del municipio e poi Quattro Canti, dove figure montate su più piani si stagliano verso il cielo, sono quattro angoli che segnano le stagioni, i re e le divinità o personaggi mitologici classici: primavera, Carlo V, Cristina – estate, Filippo II, Ninfa – autunno, Filippo IV, Oliva – inverno, Filippo III, Agata… Insomma un incrocio che divide la città in quattro quartieri.

Teatro Massimo. Vale mi racconta di quando ha assistito gratuitamente ad un’opera di Sollima, entriamo, all’ingresso dell’edificio, presso la biglietteria una simpatica signora riccia come una pecora nera, cerca di accaparrarsi, dice lei, uno sconto per l’assidua frequentazione. Al rifiuto scoppia in una sonora risata e lancia una massima assoluta: ‘posso rinunciare a tutto ma non al teatro, perché, come la sanità cura il corpo, l’arte cura la mente’… Sorridiamo insieme. Giro di mezz’ora in quell’edificio cosi imponente ed elegante da sembrare un palazzo reale, costruito nel 1897, in età sabauda, terzo teatro più grande d’Europa dopo l’opera di Parigi e di Vienna, non ha mai avuto l’onore di ospitare la famiglia reale italiana. Un’acustica avvolgente, soffitto apribile con pannelli basculanti policromi, tra marmi rossi e portoni con cristalli, pareti in legno di castagno, resistenti e adatte ai progetti di Ernesto Basile, palermitano che ha vinto il concorso per il progetto più interessante. Sediamo sul palco reale, dove appunto a sfregio degli immeritevoli Savoia, nonostante il palco appositamente creato e i numerosi inviti, quasi a sfregio, oggi, i posti a sedere vengono venduti al proletario prezzo uguale per tutti. Usciamo, dopo la favola del fantasma dell’opera raccontataci dalla guida che vede essere protagonista lo spirito di una suora che ama fare lo sgambetto all’ultimo gradino della rampa in discesa, a chi non crede appunto alla sua esistenza. Giù per le vie, Vale si distende con un gelato, io con una schweppes, poi in casa dopo altri tre chilometri a piedi. Cuciniamo come una famiglia locale specialità di trinacria, pasta arruscata, ottima. Ingoio nell’ordine, pasta, formaggi e 4 fichi d’india per poi collassare sul divano con l’ipad che lancia canzoni in shuffle su spotify. Note e melodie piacevoli accompagnano momenti rilassanti, pronti al di che ne seguirà, spero, al mare.

Oggi abbiamo, percorso 15 km e 300 metri. Fieri come di ritorno dal santuario di Caravaggio, crolliamo esanimi sul divano, mentre Vale nel tentativo di programmare la sveglia, attiva Siri, quella voce da automata che non reggo, con cui ci litigo e che alla domanda ‘specchio specchio delle mie brame… risponde: tu! E a quello del ‘miglior telefono in circolazione?… risponde: quello che hai in mano… E via dicendo… Perché la mamma ha fatto gli gnocchi, poi ancora altre cazzate veramente fuori luogo…’ Mah… Mah…

Terzo giorno dopo la partenza.

Da stamattina ho in mente mio padre, lui che poco parlava e che poche volte si è lasciato andare su pareri o gusti, ma di lui ricordo le parole legate a questa città. Indosso il suo orologio, un vecchio Lorenz dal quadrante blu cobalto, con il vetro crepato, segno di quell’incidente avvenuto molti anni fa, portato appositamente in gita per omaggiare lui e la città in cui ha trascorso un anno di naja. Incrociamo in via Calatafimi la caserma militare ‘Scianna’, io distratto vengo destato da un buffetto di Vale che mi indica l’insegna della caserma. Ho un sussulto. I sui vent’anni qui. Io mi ci ritrovo almeno mezzo secolo dopo, a ripercorrere la strada da lui imboccata insieme ai suoi commilitoni nelle ore di letizia e diletto. In macchina ci dirigiamo verso Monreale, una cittadina barocca arroccata alle pendici montuose che danno sulla baia e di conseguenza sul capoluogo. Si sale per una decina di chilometri e dopo aver parcheggiato, si è subito in centro. Il duomo, famosissimo per le dirette ecumeniche dove qualche porporato recita in eurovisione è qualcosa di inenarrabile. Totalmente rivestita di tasselli in oro, frutto di una donazione da parte di re Guglielmo II che dopo essersi destato da un sogno in cui la madonna gli annunciava che sotto l’albero di carrube avrebbe trovato un tesoro, costui lo dono interamente all’edificazione. E la sensazione che non abbia badato a spese è davvero lampante in ogni suo angolo. Legni dipinti, pavimenti intarsiati e pareti in cui l’antico e il nuovo testamento si specchiano l’uno nell’altro, incrociandosi nei punti cardinali come favole che vede protagonisti differenti, buoni e cattivi, saggi e stolti, abbienti e poveri. Tutto splende si dice, grazie ai maghi dell’oro, i maestri bizantini che hanno foderato di eleganza le migliori cattedrali medioevali, in tutto simili alla moschea Omayyade di Damasco. La cittadina sonnolenta ritrae uno spaccato di Sicilia molto vivo nel pensiero comune nord italico, confermato poi da un gruppo di impiegati comunali che si dice in ‘sciopero sindacale’ e beve allegramente alle nostre spalle nella piazzetta. Una fiat 127 sfiora una signora di eleganti movenze, in abito floreale un po’ ceramica di Caltagirone, un cannolo grosso quanto un cubito, una brioches farcita con mezzo chilo di confettura e due ottimi caffè. Via per Mondello, la baia ad est di Palermo che abbraccia un mare dipinto. La spiaggia è vuota, poche anime al sole, un relax che sembra l’estasi dei sensi, qualche straniero, un cane pigro che non vuole entrare in acqua e un paio d’ore di nuoto e pace. Un venditore ambulante urla ‘polanca… polanca…’ pannocchie lessate al sale, di cui Vale va ghiotto e ne agguanta due; in men che non si dica getta a terra i tutoli rosicchiati come da un enorme topo vorace. Ha fame, ma fingo di non sentire le sue lamentele. Qui la tentazione del cibo è forte, meglio ignorarla olfattivamente. Ma verso le 15 agita il telefonino come a decretare la prossima tappa della giornata: Bagheria e Solunto. Nella prima ci passiamo, osservando le magioni e i bagli abbandonati, color della crema al limone, sotto ad interminabili arcate di non so quale pianta che generano un tunnel vegetale di soave poesia. A Santa Flavia chiediamo ad un passante di Solunto, ci da indicazione, correggendo un paio di volte il tiro. Arriviamo, un bigliettaio con la scusa di non aver da cambiare, ci rivende i biglietti di seconda mano raccolti forse nell’area archeologica. Dobbiamo a lui 8 euro, ma non ha da che darci il resto, rovisto nelle tasche, ho solo 7 euro e 30, centesimi, si dice disposto a farci entrare, tento li aggiungerà lui i restanti spiccioli… Peccato avessimo scoperto il suo giochetto… Pazienza… Spero sia un buon uomo. Giro per Solunto, la sua acropoli meravigliosamente sovrastante il golfo, una città con bulé, agorà e quant’altro, resistita fiorente nei secoli persino ai cartaginesi, per essere poi minuziosamente devastata dagli arabi. Giriamo per le sue vie, io azzanno di tanto in tanto qualche germoglio di finocchietto selvatico che mi piace un sacco. Qualche foto, qualche considerazione e siamo nel museo, dove dei guardiani osservano velocemente i biglietti di seconda mano, e fingono di non accorgersi, forse complici del ‘furbo’ vidimatore, mentre alle spalle una collega recita il comma della direttiva regionale sul controllo dei biglietti… Ridicoli. Mentre passeggiamo per il museo in sottofondo viene sparata la sigla del cartone ‘la stella della senna’ inutile aggiungere, rovinando il momento. In macchina danno ‘message in a bottle’ dei Police, e mentre faccio un’osservazione sui fichi d’india, mi torna in mente un episodio di circa 30 anni or sono, vigilia di natale, quando mia madre, al momento della portata della frutta, ha sfoderato queste novità sicule, senza però avvisarci, lei per prima ignara, del pericolo che si sarebbe riversato sulle nostre mani. Dolore, lamenti e pianti, una notte da non augurare a nessuno, se non al fruttivendolo che a detta di mia madre, non le ha detto di che arma era ora in possesso.

Si torna verso Palermo, stasera cena fuori Klikò, dove chiacchieriamo con un tedesco che si scola un paio di birre… Odia Palermo, it’s dirty, confused… Pff!

È qualche giorno che Vale si sveglia prima di me, e mentre io mi stiracchio nel letto, lui abbozza una colazione con caffè e biscotti. Piacevole l’aria della città la mattina, che filtra coi suoi caldi raggi dalle ampie vetrate, illuminando il pavimento in ceramica a motivi geometrici e donando al tutto una veste anni ’70. Fuori gli schiamazzi si odono già da qualche ora, urlano sempre e per qualsiasi cosa. Spesso capita di sentire come comunicano tra di loro, ed a un estraneo sembra sempre che stiano per litigare, sarà per via della costruzione lessicale che vuole apporre prima il verbo del pronome? Oppure per i toni marcati? So solo che Vale a volte mi guarda e sorride dicendomi, che è tutto a posto, normali approcci. Usciamo pronti ad affrontare i soliti 15 chilometri giornalieri, su una media di 12. Prima tappa all’Orto Botanico, edificio elegante e sontuoso con due sfingi sulla piccola rampa di ingresso. Costruito tra il 1789 e il 1791, mentre la Francia era sconvolta dalla rivoluzione e i monarchi Bourbon stavano per perdere la testa, i loro consanguinei qui si davano al giardinaggio. Spettacolare assimilazione naturale, tutte ovviamente catalogate ma alla bene e meglio, enormi cactus, agapantus e rosmarini, papiri, dracene e centenari baniani dalle tentacolari radici pendule, yukka e raglia convivono palmo a palmo, vasche piene di girini e tartarughe, viottoli, un gymnasium stupendo con aula magna e soffitti a sbalzo con motivi floreali, ci accolgono sul retro due statue di Igea e Esculapio. Il tutto ha l’aria di avere bisogno di una seria scossa di manodopera, ma basta guardarsi intorno per capire quanta poca voglia abbiano i dipendenti di rimboccarsi le maniche, altrimenti, dieci metri quadrati al giorno e il parco sarebbe di nuovo splendido. Ma va detto comunque che al suo interno convivono circa diecimila specie differenti di piante sia in terra che essiccate. Chapeau!

All’uscita, lungo la parete frontale il Lemure mi chiede di offrirgli una ‘pasta’ perché senza un becco di un quattrino. Ma il suo piano è ancor più subdolo, perché appunto il bar identificato è il RosaNero, storica pasticceria dove il cannolo par essere il migliore di Palermo. Bene, ne mangia due da 8 centimetri ed uno da 12, assimilando così almeno 2500 calorie. Io addento tra sensi di colpa simili a lacerazioni da cilicio, una piccola genovese.

Si riparte, direzione centro della Kalsa, il quartiere ex-arabo che ha mantenuto il nome originale e pare derivi da el-kalisa, ovvero la pura, quartiere dove risiedeva l’amministrazione e il governo, coi tribunali. Diverso dal Cassaro, il quartiere dei commerci, e dagli altri due, proprio dove è apposta i Quattro Canti. In direzione interna, per gioia di Vale, sbuchiamo in Santa Maria degli Spasmi, i cui lavori iniziarono nel 1509, ma non furono mai conclusi. Infatti, a causa della minaccia ottomana, la chiesa divenne una fortezza. Nel 1520 la città di Palermo acquistò un capolavoro d’inestimabile valore, lo Spasimo di Sicilia dipinto da Raffaello Sanzio, con l’intenzione di ivi collocarlo, ma la tela venne poi donata ai reali di Spagna. Nel 1582 la chiesa venne adibita a sede di spettacoli pubblici, per poi trasformarsi in lazzaretto ed ospedale geriatrico nell’arco dei secoli successivi. Oggi, senza un tetto e con alberi rigogliosi al suo interno, ospita concerti jazz, opere teatrali di rara suggestione. Peccato la stagione inizi questo sabato, con un’opera che mi ha fatti scendere l’acquolina: l’Odissea in greco antico!

Giriamo per i cortili, seguiti da Maria Concetta, una ragazza che lavora nell’interno del complesso e che ama raccontare a chi si dimostra interessato, quanto consce della chiesa. È una ragazza semplice e sincera, un esempio di nostrana sicilianità che ama la sua terra e che la racconta anche fuori dalle sue mansioni. In direzione del Palazzo Reale, ci imbattiamo nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, in cui osserviamo l’organo più grande di tutta la Sicilia, simile ad un enorme distilleria. Passiamo in rassegna tutte le nicchie che contornano la pianta a croce latina e notiamo che tutte, prima di essere quel che sono attualmente, erano in dote ad altri santi. Per esempio, la nicchia di Santa Elisabetta era dedicata a Santa Rosa da Viterbo, Santa Caterina da Bologna, ora Madonna del Rosario, Madonna del Pericolo, ora San Giacomo e Francesco, uno sfratto ecclesiastico, con il beneplacito, assenso divino. La cosa che più mi ha colpito è stata una Cappella dedicata al Bambino Gesù, nel cui interno una piccola cornice ritrae l’immagine del neonato ligneo realizzato con la croce del martirio gerosolomitano, che però, come vuole ka tradizione, itinera tra le famiglie palermitane più devote per far rientro nella nicchia il 25 dicembre. Trovo top! L’inizio della costruzione di questi edificio risale al 1202 nel quartiere greco ‘gangagya’ ovvero ‘isolato’, da cui la definizione data al sito ‘della Gangia’.

Proseguendo in direzione centro ci troviamo prima a lato il liceo Vittorio Emanuele, poi la Cattedrale più importante di tutta la Sicilia, o forse di tutta la religiosità meridionale. L’enorme e stupefacente costruzione in tufo-pietra-marmo luccica a distanza per il riverbero delle ceramiche verdi e gialle che brillano avvolgono il tetto. Nel suo interno sontuosità e regale eleganza accompagnano i fedeli fino all’altare di Santa Rosalia, tutto rivestito in argento. I devoti palermitani ne raccolsero le ossa dopo che la fanciulla fu trovata morta il 4 settembre 1165. La fanciulla fu promessa in sposa a Baldovino in seguito al salvataggio di suo padre Ruggeri che per ringraziarlo, promise in sposa Rosalia (la madonna annunciò: nascerà una fanciulla ‘bella come una rosa, ma senza spine’). Lei si presentò a palazzo con i capelli tagliati, e da li in poi cercò di sottrarsi al pretendente nascondendosi in grotte e rifugi di fortuna.

Tornano alla Cattedrale, non dimenticherò quel breve percorso nelle cripte vescovili, con eburnei e litici sarcofagi, conservati come se fossero in una cantina per l’invecchiamento dei vini, la cripta reale, coi vari Re Ruggero, regina Costanza e Federico, per poi arrampicarci su per un centinaio di gradini sul tetto della stessa, dove notiamo come una addetta alla sicurezza su quella superficie quasi pendente, non smetta per un istante di chattare con WhatsApp senza degnare le orde geriatriche che senza poca fatica arrancano al sole, ai 30′ gradi e sfidando il vento… Lo spettacolo e la vista sulla città è incantevole. Guardo l’ora, sono le 13 e 27 e mentre osservo le lancette, penso di nuovo a quell’orologio che un tempo stringeva il polso di mio padre e che ora si trova sul mio. Chissà se lo stesso orologio è già salito sin quassù molti anni or sono. Discesa, rampa ellittica, sul cui interno leggiamo W IL PCI, inneggiante scritta politica all’interno di un edificio religioso, frutto, ahimè di un’inconcludente battaglia ideologica che non ha avuto né vinti né vincitori, ma solo una gran fuga di elettori/credenti.

Tappa al nono chilometro, esanimi, Il Lemure mangia panelle e patate fritte, crocchette ed una coca light, mentre io ingoio una spremuta ai piedi del Parlamento Siciliano. Al tavolo si chiacchiera con una coppia di sessantenni veneti, che per mezz’ora ho creduto spagnoli di cui ho commentato la voracità di ingestione della nostrana pizza. Lui mi si rivolge dicendomi se son siciliano (ovviamente non è il primo, in molti a causa degli occhi chiari), quasi a voler deviare l’attenzione e la stima che nutriamo per questa terra, verso la sua: Verona è la terza città più visitata in Italia… Il Veneto la prima regione (e grazie, avete Venezia, mica per Tosi o Zaia) e così via passando per il cibo poco fresco, cosa che in Sicilia mi risulta essere impossibile. In questa terra il cibo è sacro e come tale ti viene proposto. Ho delle maniglie dell’amore di rilevante importanza.

Palazzo Reale o dei Normanni, sede del Parlamento. Tentenniamo quasi come se avessimo avuto un segnale di preveggenza. All’ingresso, 8 euro cadauno, al piano superiore visitiamo la cappella Palatina, ovvero, la Cappella dove re e cortigiani utilizzavano per le cerimonie. Una meraviglia. Credo in assoluto una delle strutture meglio decorate e più eleganti viste in vita mia. Me la immagino come sarebbe dovuto essere il palazzo Imperiale di Costantinopoli, credo unico degno rivale in quell’epoca. Mosaici, intarsi, porfido rosso dall’Egitto, maioliche e dipinti seicenteschi all’ingresso. Provo davvero tanta ammirazione. Ma all’uscita dalla cappella mentre tentiamo di salire delle scale, veniamo fermati da un’addetta al pubblico e da una vigilantes che ci informano della totale chiusura della Sala del Trono e Sala d’Ercole, non visitabili. Pongo le mie rimostranze e loro, per smorzare i toni, sciorinano complimenti su occhi e viso dolce che nasconde bene l’arrabbiatura. Lei non sa che posso trasformare un patibolo in salotto, o viceversa, con lo stesso sguardo! Non sono arrabbiato sono nero. Dico comunque a loro che all’ingresso non siamo stati avvertiti. Vale mi intima di stare calmo, io insisto che il prezzo è sproporzionato per 1/3 della visita! Usciamo, con dente avvelenato al polonio mi dirigo verso la biglietteria e chiedo perché non sia possibile essere avvisati prima di versare 8 euro per una visita di 6 minuti. L’addetto, mi indica un cartello con scritto ‘oggi possibile vistare Cappella Palatina’ e spiego al tizio che in italiano questo significa, se mai, che la visita alla cappella è un di più, non un’unica cosa. Avrebbe avuto più senso segnare che il Palazzo era chiuso eccetto la Cappella. Grrrrrrr! Zampettiamo verso la stazione, straziati dal caldo e dalle fatiche ma molto ricchi di cultura e amore. Tappa a Ballarò il mercato rionale per la spesa della cena e poi da El Habib, incetta di ceramiche e maioliche. Un megascatolone. Ceniamo lucullianamente in casa con maltagliati pomodorini pachino, caciocavallo, cannoli farciti e fichi d’india con un grappolo d’uva. Vale alle nove e mezza già ronfa mentre io mi sparo ‘Chi l’ha visto’. Notte Palermo.

Alle 8,30 ci si desta, io un pochino dopo. Corriamo contro il tempo per preparare bagagli e spostarli sulla macchina, tre piani, più altrettanti (solo per me) per risalire e scendere con uno scatolone di almeno 20 chili di ceramiche. Lasciamo Palermo un po’ annuvolata passando davanti alla Zisa, ‘la splendente’ (da el-aziza) il palazzo sorto nel Genoardo, il Jannat el Hard (paradiso in terra) fuori le mura per volere di Guglielmo I, una sorta di parallelepipedo marmoreo in stile normanno che galleggiava in una piscina. Il cielo è abbastanza nuvoloso, prima tappa del viaggio è Gibellina, nuova città ricostruita a qualche chilometri di distanza dalla sua devastata omonima dopo il terremoto del Belice del 1968. La nuova città che anticamente era conosciuta come Jebel el Zeghir (piccolo promontorio) purtroppo ha destato solo brutte sensazioni sia a me che a Vale. L’impressione è che il fiotto di soldi per la ricostruzione siano stati gettati in brutte ed inutili opere che definire artistiche è un insulto all’arte stessa. Ad accoglierci un’enorme stella a cinque punte che scavalca a gambe aperte lo svincolo autostradale, passabile, megalomane, ma tutto sommato digeribile. Una volta parcheggiata l’auto, ci si getta in un bar costruito in una sorta di edificio dalla forma improponibile, sembra un intestino di acciaio, orribile, disgustosamente desolante, e l’ingresso sembra una forzatura per i cinque sensi. Non è stato possibile sostare per più di pochi minuti tanto era stucchevole l’arredamento, l’atmosfera e l’irreale luce. Per non farci mancare il colpo di grazia, ci addentriamo nel Sistema delle Piazze, ovvero più e più piazze consecutive, irragionevolmente così realizzate, drammaticamente brutte e dall’aria cimiteriale, propria dei campisanti degli anni ’80. Decidiamo di andarcene immediatamente, questa ostentazione di brutture è uno schiaffo al sostegno alla nobile causa della ricostruzione. Prima di abbandonare l’opera però, Vale si diverte a fotografare chiese simili a canestri da basket, colonne fatte con lastre di marmo simili a bacon fritto, un parcheggio sopraelevato d’auto (come se ce ne fosse bisogno) dalla forma di un enorme occhiale da sole adagiato sul nulla.

La prossima tappa sarà Selinunte, la Selinus greca, ‘prezzemolina’ appunto. Sarà la tappa culturalmente più eccitante ed appagante per me, rovine greche sparse su un’area gigantesca. Vale sa che mi sta per fare un regalo enorme, e alla testa degli ormai 900 chilometri, è anche fiero di questo. Non smetterò mai di ringraziarlo, mi ha donato la sua Sicilia a cuore aperto come mai avrei potuto immaginarmela. Entriamo al sito, 6 euro cadauno, poco per una beltà simile. È ben curato, pulito, con il suo grande tempio ben conservato ad accoglierci, come un vero guardiano del tempo. Un percorso intorno a queste gigantesche e polpose colonne, molto simili a Segesta, ma collocate in un contesto paesaggistico totalmente differente. Selinunte, fu colonia di Megara Hiblea, e per la sua posizione fu spesso presa di mira dai dirimpettai punici, che non amavano concorrenza commerciale, soprattutto da parte di colonie greche, e fu così che nel 409 a.C. Annibale Magone, la conquistò dopo soli nove giorni, senza che la città ottenne rinforzi da Agrigento e Siracusa. Perdersi nelle sue vie è stata un’emozione a tratti nostalgica e piena di perplessità. Perché l’uomo sente la necessità di distruggere ciò che è diverso, più bello o più brutto (opinabile) o semplicemente più ricco? Ci si chiede perché di tanta inutile ferocia quando la coesistenza non avrebbe nuociuto a nessuno? Tutti noi sappiamo come poi è finita con Cartagine, che un po’ dev’essersela cercata… Un paio d’ore e tanta poesia, con le mura che si adagiano sul mare, una spiaggia scura, qualche nube e anche qualche goccia di pioggia. Romanticismo allo stato puro.

Via verso Mazara del Vallo, famosa in tutta Europa per la flotta peschereggistica. Piove, poco, ma abbastanza per cercare qualche riparo. Il tufo giallo si colora di un’ocra intenso, quasi terra da Siena bruciata. Piazza Mokarta, con il suo arco normanno, le viuzze ricoperte di ceramica e le enormi otri dipinte lungo tutto il periplo delle vie. Le molte chiese adornano la cittadina come se fossero gioielli, una chiesa semidistrutta in puro barocco siciliano si prepara a diventare teatro musica per la sera successiva, mentre nella città stessa sorgono tendoni e gazebo arabeggianti che ospiteranno il festival magrebino. Passeggiando nel quartiere della Casbha, propriamente cosi definita perché basterebbe solo che le case fossero rosa, e non color panna per essere la gemella europea di Marrakesh. Per strada sono molte più le persone che parlano arabo che quelle che si rivolgono tra loro in ‘italiano’ (idioma ai più sconosciuto). Passiamo davanti ad una chiesa, dove un nugolo di persone stanno attendendo la sposa. Visti gli invitati, ci vien voglia di attendere il gioiello. Arriva una Maserati Gran Turismo nera, da cui scende dapprima la testimone, vestita con corpetto rosso in pizzo, panta nero sormontata da lunghette in voile di tulle e dulcis in fundo, colorazione biondo paglia e baschetto laterale simil zarina in gita a Venezia. La sposa, una sirena di tulle e pizzi, dai fianchi possenti e le spalle di una che un tonno lo porta a braccio come una borsetta da sera, velo, chilometri di velo, tanto che giunta sull’altare ne resta un pezzo fuori dal portale. La chiesa è stupenda, interamente decorata e dipinta sul soffitto. Andiamo verso la macchina. Strada facendo obbligo Vale a fermarsi, vorrei della terra rossa da mettere nei vasi. Acconsente, e mentre mi chino sul ciglio di una strada scavando come un setter per dissotterrar l’osso, mi riprende. Sono passate da poco le diciotto e siamo a Trapani. Nella ci attende per consegnarci una nuova stanza, mi doccio e vengo strappato fuori casa dal Lemure e dai suoi crampi famelici. Per saltare la doccia lui, dev’essere stato davvero affamato. Purtroppo per lui Calvino è chiuso per ferie, si fa rotta verso la bella Osteria di San Pietro, che ci rimbalza, tutto esaurito. Finalmente troviamo pace Alle Vele, ottima pizza, esplodiamo.

Che notte faticosa, la pizza di ieri sera è risultata pesantissima, aggiungiamo poi le zanzare e una mosca che ho cercato di accoppare inutilmente. Ci svegliamo alle nove circa e Vale è in crisi perché l’aliscafo che voleva prender è già partito. Tutta questa fretta per andare a Favignana mentre il cielo non promette nulla di buono. Usciamo, colazione e poi biglietti. Mentre siamo in attesa di imbarcarci, inizia il temporale. E si che il biglietto di ritorno è stato preso per le ore 20.00… Mentre andiamo, Vale mi racconta di Marettimo e Levanzo, della struttura geologica dell’isola e del suo desiderio di affittare uno scooter. Gestisco internamente il mio dolore vedendomi infangato fino alle orecchie, sotto un nubifragio sull’isola, magari senza più la possibilità di ritornare. Vivo il mio incubo ondeggiando in quel mare blu cobalto. Arriviamo, ha appena smesso di piovere e già dal porto l’acqua brilla di un turchese incantevole. Piazzetta, sono un po’ più sereno ora, e il fatto di star per affittare delle bici mi rallegra. Vale da uomo, cambio schimano, la mia da donna, con cestello portaborsa davanti. Partiamo per Cala Rossa. Qualche chilometro tra i muretti di pietra e le lande brulle costellate di fichi d’india, buganville e gelsomini. La quiete la fa da padrona ed insieme a lei qualche grillo tiene il sottofondo accompagnandoci alla ruvida cala. Il mal tempo e le rocce scoscese non rendono il posto ospitale, se non per fare qualche foto. Siamo di nuovo in bivi, altri tre chilometri e giungiamo alla Cala Azzurra, un poco meno rocciosa e forse più agibile. In bicicletta i chilometri non si percepiscono, ma siano arrivati ormai alla decina. Facciamo un bagno, almeno, io riesco ad entrare in acqua mentre Vale resta appollaiato sulla spiaggia in attesa che io esca per divorare il suo panino mozzarella. Nuoto, esco e ci dedichiamo al pranzo. Avvolto nel mio pareo un poco infreddolito, mi siedo ed addento il pane cunzato, una prelibatezza farcita di alici, pomodori e mozzarella, molto simile alla medesima pietanza maltese. Un gabbiano mi osserva con aria di quello a cui devo la tangente alimentare. Vale lancia qualche pezzo di pane, ma il mega volatile non accenna ad andarsene, finché non avverte le mie mani completamente vuote. Bici, e di nuovo verso il centro. Sia io che Vale ci copriamo il capo coi rispettivi parei, ed è così che il Lemure, che non fa altro che sfottermi, mi riprende mentre velato come la moglie di El Baghdadi pedalo con aria folle circondato da paesaggi brulli e cordoli in pietra. Sembra mi stia scagliando a tutta velocità contro un checkpoint israeliano… Piacevole, fino alla sosta al molo della tonnara, alla piazzetta e al passaggio davanti a Villa Florio, dove un’istallazione artistica dedicata alla pesca, espone t-shirt illustrate con pesci stilizzati e squaliformi recita la suddetta dicitura ‘S. Megalodonto’ con l’effige di un infantile sagoma dall’aria aggressiva. Attendiamo l’aliscafo, di cui ne anticipiamo l’orario di rientro per la continua e fastidiosa pioggia.

Ci imbarchiamo, e li conosciamo una simpatica ragazza trapanese trapiantata a Roma, Alessandra con la sua volpina. Venti minuti di chiacchiera e siamo a terra, dove raccontiamo appassionatamente casi da tribunali. Ci scambiamo i numeri. Rientrando a casa ci fermiamo di nuovo dal Sig. Barbera da cui acquistiamo altri due cordoli giganti rendendo il trasporto sempre più complicato. Ci occupiamo del materiale per il confezionamento regali. Ne escono due scatoloni rasi, uno di 12 kg e l’altro di 19. Bagagli fatti, fuori piove e all’Osteria San Pietro, sotto casa per la seconda volta, non hanno posto. Ma il Lemure non demorde, si va da Mare è, un piccolo posto arredato con materiali di recupero provenienti dal mare. Ceniamo divinamente.

Ultimo giorno, indaffarati, posta (dove mi mordo il labbro per la strafottente ignavia degli impiegati all’ufficio), giro a Dattilo. Questo paese dimenticato dai popoli, è famoso solo per l’Euro Bar, dove Vale, sfidando la sua gracile anatomia, ingoia due cannoli di 12 centimetri, contenenti almeno 500 grammi totali di ricotta. Trapani, spesa alimentare, profumo di Zagara e pranzo ancora da Mare è…. Che dire, il resto è quanto di più malinconico precede il rientro. Bus, aeroporto, annuncio ritardo aereo…

Giunti al termine di questa splendida vacanza, tra interminabili passeggiate, momenti di diletto ed abbuffate mi ha permesso, anzi, ci ha permesso di riscoprire l’originale l’italianità, di riconoscerne l’unicità urbi et orbi, ponendola al primo posto tra tutte le destinazioni sino ad ora viste. Una vacanza unica nel suo genere, tanto da farci adocchiare qualche possibile dimora per l’anno venturo, spero vacanza da condividere con amici e Pongo. Aggiungo inoltre, che la mia terza volta in Sicilia è stata degna delle precedenti, se non migliore.

 

Moyseion

Graphic Designer/Publisher

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