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Uttar Pradesh, Madhya Pradesh e Rajasthan

Uttar Pradesh, Madhya Pradesh e Rajasthan

India per signorine - il ritorno

Departure-icon 09/08/2017 - Arrive-icon 23/08/2017 3

E così, per la terza volta, decidiamo di andare in India; un viaggio un poco più intenso, imbellettato di spiritualità, per togliere quell’etichetta che differenzia una vacanza dalla ricerca di un altrove in un non-so-dove, a seguito di un anno incredibilmente difficile.
Tonare in India significa voler affrontare, sollevare di peso e guardare faccia a faccia i viaggi precedentemente fatti. L’india è un paese che ti accende una luce, che passa dagli occhi ed arriva al cuore; la luce della curiosità verso le cose che si incontrano, si masticano e che spesso non si capiscono. Tante cose restano indigeste, ma la vita purtroppo va così. È un paese incredibilmente ricco di contrasti, dalle mille sfaccettature e soprattutto ricco di quella creatività che antropologicamente non si trova in nessun angolo del mondo.
Non scelgo, scelgono altri per me. Il desiderio è quello di attraversare l’Uttar Pradesh, Il Madhya Pradesh, toccando Rajasthan e Haryana, per poi finire nel distretto della capitale indiana. Inizia così l’ultimo viaggi in India, un immenso paese di cui non è semplice parlare se non chinandosi togliendo il cappello in omaggio al suo glorioso passato.

Già in aeroporto troneggiano manifesti che precedono la festa nazionale del 15 agosto che recitano ‘Our heritage is our Glory’; i giganteschi pachidermi dorati che sostano negli spazi all’interno dei Gate sono un po’ ossidati rispetto al ricordo che avevo degli stessi lucentissimi incontrati nel 2011. Sembra stranamente vuoto, mentre dall’esterno sembra non filtri nessun raggio di luce. Infatti, il clima post monsonico lascia un cielo plumbeo che sembra voler scoppiare da un momento all’altro in una bomba d’acqua. Un nuovo decreto legge ha dato un altro giro di vite al tabagismo, costringendo quei pochi incalliti turisti ad esporsi oltre la tettoia che da sulle corsie di attesa dei taxi, sfidando gli stessi che sfrecciano strombazzanti, boccheggiando a 37° su un marciapiede largo non più di 40 centimetri.
Dal primo programma vacanza, si sarebbe voluto andare a Calcutta, ex capitale e centro intellettuale del paese, ma una verifica dei costi aerei (inattesi) presso le biglietterie aeree, fanno si che la destinazione successiva sia Varanasi, la città santa.


Dopo 4 ore trascorse tra un caffè e il Gate, ci troviamo a Varanasi (ex Benares) città che come Mumbay (Bombay) ha mutato nome in memoria dei tempi passati. Il suo nome è la somma toponomastica dei due fiumi che la racchiudono, il Varana e l’Assi, che abbracciano questa fertile e distesa pianeggiante. Varanasi conta quasi 4 milioni di abitanti, è immensa e dal suo aeroporto è possibile arrivare in città spendendo circa 800 rupie. Forse percorriamo oltre 20 chilometri di strade dissestate, fangose strette tra ruspe e sopraelevate dall’aria semiabbandonata, che sembrano il doppio, vista la durata. Intorno, solo il verde splendente sembra contrastare il colore opaco che hanno le abitazioni, le strade e l’immancabile manto nuvoloso.

Appena si tocca la periferia, una brulicante folla sciama lungo le vie; chiassosi tuc tuc sfrecciano velocemente trasportando desideri, virtù e merci in ogni dove per la città. È come un formicaio umano; pensare che questa città rappresenta la nostrana ‘Lourdes’ lascia davvero sbigottiti. Sembra una città che mai si è ripresa da un conflitto decennale, quasi a volersi sgretolare su sé stessa o squagliarsi sotto le piogge torrenziali terminate pochi giorni fa. Alloggiamo in un ostello per nulla facile da trovare. Si chiama Hostel LaVie, è un haveli nascosto nelle vie interne del quartiere Shivali, vicino all’omonimo ghat. È tutto bianco, con le finestre incorniciate da un bordo blu e uno giallo, alternando quasi fosse un Mondrian; un giardino carino e rilassante, oltre ad un dehor con stuoie sul pavimento e pouf orientali, completano questa oasi di pace. Arriviamo circa alle 7 di sera, ci accolgono i proprietari all’interno della reception subito dopo il corridoio di ghiaietta bianca. Ci invitano ad accomodarci ed a toglierci le scarpe. Tra poco verrà pronta la nostra stanza al 2° piano composta da 4 letti a castello e a.c.; il crepuscolo già domina la città e suoni in lontananza enunciano l’inizio delle abluzioni serali lungo i ghat. Usciamo per cena dove un nerboruto indiano di nome Athul, il cui significato ci dice essere ‘Incredibile’ ci propone un giro in tuc tuc per l’indomani e uno all’alba per il giorno successivo presso i ghat. Ci accompagna in un posto poco lontano, nascosto tra le viuzze attraversate da rivoli di acqua scura e maleodorante. Si chiama Bread of Life. Punto. Una bisunta porta cigolante color verde menta si apre all’interno di questo terrificante luogo. Un tanfo acre che sembra essere semplice cibo abbrustolito, aleggia nella stanza. Un ventilatore che dondola spalma gli odori direttamente sulle nostre facce. A volte si ha la sensazione di avere due cervelli, uno che osserva, passivamente immagazzina e subisce, mentre l’altro pronto all’evenienza, cerca riscatto e si ribella; stasera la soluzione cerebrale adottata è la n°1… Ci guardiamo negli occhi, vorremmo scappare, ma non abbiamo la forza. Possibile che davvero non ci sia in giro nulla di meglio? Iniziamo a subire l’india, quella che ti fagocita e che ti muta. Mentre ordiniamo, alternando boccate di smog e sigaretta nel piccolo patio che da sulla strada, racchiusi dalle spranghe verticali come nemmeno in una gabbia di tigri, osserviamo lo strofinaccio che palleggia di mano in mano tra i camerieri, diventando all’occorrenza straccio per asciugare le stoviglie, panno per pulire i tavoli, i vetri e d infine, nel suo caldo color crema… divenendo alla fine della serata, ad uso del cuoco che sudatissimo esce dalla cucina, il suo asciugamano personale da toeletta! Il vero proprietario siede dietro alla cassa che consta in un blocco per le fatture appoggiato su una fetida vetrinetta scivolosa in cui ansimano esanimi alcuni plum-cake, biscotti e muffin. Ceniamo e fuggiamo da quel posto sgattaiolando tra i vicoli illuminati da quei pochi volt che miracolosamente non esplodono sotto alla legger pioggerella che cade. Ci ritiriamo in camera. A turno, Matteo, io e Vale ci docciamo. Siamo un improbabile trio, ognuno con le sue fissazioni, fisime e passioni, nonché vizi e qualche virtù. Ognuno di noi è alla ricerca della propria indimenticabile India. La notte corre a 15°, una temperatura infinitamente troppo bassa per me, che mi avviluppo nelle lenzuola maledicendo l’aria condizionata e il suo uso smodato. A quella temperatura, Teo sostiene che qualsiasi insetto, zanzare malariche, subiscano l’effetto freezing. Nella stanza di fianco, una comitiva di ragazze cinesi fanno fracasso infischiandosene bellamente del vicinato dormiente.

10 agosto

Compagna dei nostri ultimi viaggi è Alicia, la caffettiera elettrica che ogni giorno ci risveglia con la sua fantastica aroma carica di italiana voluttà. Stantuffa getti di caffeina che restano come congelate dalla temperatura, e potrebbero divenire caramelle tofee. Sono le nove passate da poco, e sorseggiamo in veranda. Appuntamento con Athul a mezza mattina per il giro in città. Vale assesta qualche ripresa per la strada; il tuc tuc sfreccia per qualche chilometro, mentre il tanfo della città passa attraverso le narici, insomma, la respiriamo a pieni polmoni. Teo inizia ad avere qualche perplessità su quel clima ostile. Io avverto un po’ fame, ed è cosi che dopo una passeggiata in città, sostiamo per un dolcetto. Unico posto su cui fare affidamento è lo stesso della sera precedente, almeno nello stesso quartiere. Ma una volta entrati, subito il pentimento raggiunge livelli elevati. L’odore di bruciato è così forte che decidiamo di sedere per strada, proprio di fronte alla piazzola ecologica di Varanasi, il che la dice lunga. L’odore viene equamente distribuito per tutta la sala grazie all’impianto di dondolanti ventole che gasano il tugurio. Meglio gli odori veraci di Varanasi che quelli della diossina. Ordino un muffin, sperando che quelli decomposti della sera precedente fossero stati gettati, mentre Teo e Vale un caffè. Dopo un po’ mi arriva un muffin ricoperto di muffa. Faccio loro notare che il dolce è coperto di una patina bianco/verdastra, ma lui risentito, cerca di togliere la patina verde con un colpo di mano. Non lo voglio… Lui sparisce e dopo qualche minuto torna scusandosi, dicendo che il muffin ‘not good’ (ma dai?) e mi porta dei biscotti. Ad ogni interferenza del cameriere che avviene attraverso la finestra, noi la chiudiamo bruscamente. L’odore che fuoriesce è insopportabile! Alle 10 Athul ci aspetta, un piccolo tour attraverso i tre luoghi più importanti da visitare. Iniziamo a percorrere la strada, il velomotore sosta a pochi metri dall’ingresso del complesso del New Vishwannath Temple è un posto singolare, all’interno di un campus universitario un po’ fuori del caos che si vive lungo il Gange. Il tempio di Shiva ci appare color pesca, è elegantemente inserito in un prato verde. I riti religiosi che si susseguono sembrano quasi di natura dionisiaca, esperienza autentica nell’hinduismo e nei suoi rituali molto particolari.
Poco distante dal tempio di Vishwannath si trova il Sankat Mochan Hanuman Temple, dedicato al dio scimmia Hanuman. Ci sono armadietti fuori del tempio dove è obbligatorio depositare tutti i vostri effetti personali, tanto che Vale è costretto nuovamente a riporre l’armamentario. Ci sono molte scimmie a cui è meglio non prestare attenzione, già hanno abbastanza confidenza con gli esseri umani. Athul, molto timidamente dice di essere particolarmente devoto a questo dio antropomorfo.
Sono le 15. Rientriamo all’ostello e ci riposiamo. Cena all’Ashish Café, ottima, con vista Gange.

11 agosto

Sono le 4 del mattino, la luce è fioca, il telefonino squilla nuovamente l’allarme la cui melodia è tratta da Marigold Hotel. Teo da forfait, non ce la fa ad alzarsi per venire a fare il giro in barca. È stralunato, dice che le cinesi di fianco hanno fatto baccano tutta notte. Vale è mezzo rintronato, nonostante abbia russato come un bolide. Dopo un sorso di caffè è eccitatissimo all’idea di effettuare delle riprese su una barca lungo il Gange. Mentre passeggiamo in file ‘indiana’ per le vie assonnate, rifletto con quel poco di sensibilità che si è destata. Ne ho sentite dire di tutti i colori riguardo ai gath di Varansi, più volte mi è stato ripetuto che grazie alla spiritualità il dolore e la morte assumono un significato diverso. Gli indiani sono un popolo estremamente spirituale e davvero vita e morte hanno per loro un significato diverso, ma credo che il dolore sia dolore per tutti e che non vada mai dato per scontato né tantomeno accettato come se fosse una cosa leggera. Molte persone si recano lungo queste ripide scalinate per gettarsi nel Ganga (Gange) il fiume sacro per antonomasia. Finalmente vi giungiamo attraverso una scalinata del Shivali Gath, un’ampia discesa a gradoni decorati con piccole volte a sesto acuto sporgenti color sabbia, su cui si adagia calmamente la sponda occidentale della città. Le torri si riflettono sull’acqua scura, alcune persone seminude già si immergono avvolti in piccoli drappi, si rovesciano addosso acqua da piccole ampolle (matka) in metallo, la sorseggiano, si sfregano e pregano devotamente. Saliamo sulla chiatta dove il barcaiolo distribuisce i pesi per poi prende il largo. È quasi l’alba, una fredda e cupa alba che contrasta coi fuochi e le piccole lampade a olio che alla nostra sinistra si scorgono in lontananza. La barca inverte la rotta e vira dirigendosi verso sud. Ci avviciniamo e per pochi minuti assistiamo al rito sacro che consta in movimenti sincronizzati che si compiono su piedistalli rialzati accompagnati da sibili di sistro e campanelli. Al termine, la barca prende nuovamente il largo, si lascia cullare dalle acque cabotando tutti i vari ghat che scendono verso il fiume. Spesso il barcaiolo si allontana volontariamente dalla costa per evitare di mostrare l’intimo rituale della cremazione o qualche altra cerimonia che è meglio preservare. Ondeggiamo tutti in silenzio tra pensieri che raccolgono ricordi di anime che vivono nei nostri cuori e che per mille, anzi milioni di volte galleggiano nel nostro cuore. Osservo la schiena di una mucca su cui è riposto un telo, semi adagiata sul fiume. Riposi in pace anche lei, devoto animale sacrissimo.

Dopo circa un paio d’ore rientriamo. Teo è sveglio e per nulla pentito del non essersi alzato. È riposato almeno. Raccontiamo a lui quanto appena visto mentre aspira una sigaretta come se fosse l’ultima, quella del condannato, e se la ride. Vaghiamo a vuoto per le vie lasciandoci stordire da tutta quell’indianità che ti tormenta come un vento incessante. Al ritorno, poco prima di imboccare il vicolo dell’ostello, un funerale musulmano interrompe la strada. È molto semplice ed elegante. È quasi raffinato. Pace e dolore, contegno. Tutto rivolto verso la Mukarrama, la Mecca.
Passeggiando per la città, all’imbrunire, ci perdiamo alla ricerca del Ristorante Ganupath, che si nasconde nel cuore nevralgico della città vecchia. È un delirio. Optiamo per un’altra soluzione; un banale ristorante turistico completamente invaso dai cani che ci dormo sui piedi, servizio ultra lento che sommato al caldo stagnate, rende il tutto insopportabilmente soporifero. Passeggiamo nuovamente per le viuzze scriteriate di questa città dalle pulsanti viscere, dove sacro e profano si alternano quali conseguenza l’uno dell’altro; commercianti noiosissimi cercano di attrarre possibili clienti in fuga dalla cruda realtà, ma al tempo stesso alla ricerca di qualcosa che li spinga ad essere li per un motivo. Per un qualsiasi motivo. Rientriamo all’ostello e qui in compagni di un ragazzo italiano, ridiamo insieme di racconti fatti di shopping a base di cocci in terracotta e imprevisti vari di vite attuali e passate.

 

12 agosto

Partenza per il complesso templare di Sarnath, disseminato di resti di templi precedentemente distrutti, dove troneggia uno stupa simile ad un capezzolo gigante, in cui si dice Siddartah nel 528 a.C. a 35 anni, abbia recitato il primo e più importante dei suoi sermoni, quello dei Cervi, dove non a caso ora si trova un parco che ne ospita qualche centinaio. È un luogo molto importante sia per gli hindù che per i giainisti, e nel parco finemente curato, c’è anche un piccolo museo, che ospita nientepopodimeno che la colonna di Ashoka, il famoso monarca indiano che tra il II e il III secolo a.C. fece erigere nel suo possedimenti le famose colonne tetraleonine, oggi simbolo dell’India. Qui appunto vi è conservata la principale, lucida, splendente. È impressionante, come raccontano anche i libri e le diciture, di quanto sia affini con la cultura ellenistica, per stile ed eleganza, frutto dei contatti macedoni con i regni indiani. Nel parco di fronte al capezzolone sacro in pietra color ocra scuro, parzialmente decorato, due ragazzi giocano a cricket sotto lo sguardo di un poliziotto che anziché riprenderli, fischietta come se dettasse le regole del gioco. Tutto qui può avvenire, tranne fumare una sigaretta all’ombra di un baniano vicino ai cervi. Almeno qui si respiro, se non ossigeno, qualcosa di molto affine… Poco più in là, oltre il perimetro esterno, un altro piccolo agglomerato di templi, il Bodhi Three complex, introdotto da un piccolo viale lastricato di pietre dai cui lati scendono grandi gonfaloni buuddisti dallo sviluppo verticale. Questo complesso, restaurato da Sir Alexander Cunningham ospita un albero sacro di Bodhi, trasportato qui da Annuradhapurna dalla talea originale a sua volta portata dalla principessa Sangamitta (figia di Ashoka) in fuga in Sri Lanka. Devotamente, raccolgo qualche foglia caduta sul pavimento e penso alle persone a cui potrebbe portare sollievo.
Ultimo pranzo varanasino all’Ashish Café, ottimo, prima della partenza per Khajurao in treno. Alle 16.30 siamo in cuccetta, 2° classe AC, incastrati nei nostri vani, on lenzuolina al sapore di cenere gentilmente devolute dalla North Indian Railway. Teo si ingrazia una bimba donandogli un dispenser per bolle di sapone, e poi si da all’inseguimento di uno spagnolo che cerca di fumarsi una sigaretta in bagno. Il Lemure galoppa tallonandoli, cercando di accodarsi. Saranno parecchie ore senza poter scendere da questa gabbia mobile. Meno male che ‘Le Notti delle Mille e una Notte’ di Mahfuz, coi i vari Abdullah del mare, Sharyar, Shalul e Simbad mi terranno compagnia…

13 agosto

Sono le 5.15 del mattino. La stazione di Khajurao appare semivuota, qualche anima riposa avvolta in teli arancioni e rosa sul pavimento, sembrano quei coloratissimi dolcetti che spesso si vedono nelle pasticcerie… Alcuni cani ciondolano nella speranza di agguantare qualche briciola di cibo, mentre i sagaci autisti dei tuc tuc rincorrono i primi turisti che cercano di uscire. Il ragazzo spagnolo viene respinto dall’assalto frontale e rientra, descrivendo l’incontro coi procacciatori come ‘fastidioso’. I miei compagni fumano sigarette a rotta di collo, una dopo l’altra, al limite della tettoia in eternit, per non essere redarguiti. Attendiamo a muoverci perché c’è il rischio di trovare gli alberghi chiusi a quest’ora. Con coraggio, usciamo e saliamo sul primo tuc tuc, 300 rupie e ci facciamo portare alla Casa di William, l’unico albergo di cui ricordo il nome (in quanto il cellulare non funzionava a nessuno dei 3), perché a memoria possedeva una piscina. Percorso qualche chilometro di questa ordinata campagna costellata di risaie e baniani, palme e mandrie al pasco, giungiamo all’albergo. Purtroppo le aspettative verranno subito disattese, è qualcosa che non corrisponde minimamente alla descrizione di booking. All’unanimità votiamo no. Il tuc tuc man consiglia il Buddah Hotel, posto molto carino, con le camere distribuite su un giardino. Teo camera con aria condizionata, mentre la nostra no. Appena il tempo di scaricare i bagagli, Rajev, il ragazzo alla reception ci dona la password del wifi che rende finalmente funzionanti i nostri telefoni, nonostante stessimo utilizzando le sim indiane. Ed è così che scopriamo non essere la Casa di William l’albergo con piscina, ma un altro. Personalmente mi vergogno di come abbiamo additato l’albergatore tacciandolo di scorrettezza nel aver postato delle immagini di piscina. Accomodati in veranda, come sottofondo il gorgoglio di un laghetto artificiale, facciamo colazione con pan carré e marmellata, insieme ad un the nero e al masala tea. In lontananza un ermellino scorrazza per il prato, mentre dei muratori iniziano il saliscendi dalle scale carichi di mattoni e canne di bambù. Non sembra vero. Pace e pulizia. Dopo una doccia, con un tuc tuc partiamo per il giro dei templi distribuiti nella periferia di Khajurao. L’autista carica lungo la strada un suo ‘cugino’ che parla un buon italiano e che si propone di portarci, in una scuola in costruzione. Prima ci rechiamo in un’agenzia per acquistare il biglietto treno per il giorno seguente che da Khajurao ci porterà a Jhansi. Inizio compulsivamente ad acquistare piccoli piatti per chapati da una signora li a fianco. Questa cittadina, patrimonio dell’UNESCO vanta il più grande numero di templi medievali induisti e giainisti dell’India. È un luogo ricco di passione per la danza, la musica e le arti creative che si concretizzano nelle sculture e nelle immagini dei suoi templi: oltre 80 templi dedicati a divinità giainiste, induiste (Brahma, Vishnu, Shiva e alcune delle forme femminili di Devi). Si dividono in tre gruppi di cui quello occidentale costituisce il più famoso. Il primo tempio incontrato è il Chuturbuja, raggiungibile dopo aver percorso un piccolo sentiero sterrato. Abbastanza spoglio, contenete una statua di Visnù di quasi 3 metri di altezza. Tutto racchiuso in un piccolo recinto, il cui ingresso è gratuito (perché in realtà si pagherà solamente l’ultimo, il più bello e interessante). Il secondo complesso è il Tempio Duladeo, nel complesso posto a sud, dedicato al culto di Shiva. Costruito nel XI secolo, con immagini lussuriose (ma non troppo rispetto ai successivi) che la tradizione vuole servano a stimolare le coppie appena sposate per attingere al repertorio da scimmiottare nella prima notte di nozze. È il più recente di tuti i templi e il meno fantasioso, forse fase finale della creatività giainista. Il tempio Kandariya Mahadev, rappresenta l’edificio templare dedicato a Shiva più grande e superbo di Khajuraho, con una torre alta oltre 30 metri. I templi di Khajuraho sono noti per le sculture erotiche che li adornano chiamate Apsara (danzatrici celesti), Mithuna (figure lussuriose) Surasundara (simili alle Apsara, ma dedite alla cura delle dee, per cui non danzanti) Sardula (metà animali e metà umani) avvolti in contorsioni erotiche davvero sorprendenti. Il complesso dei templi occidentali, insieme al Lakshmana rappresenta la miglior espressione di quell’arte Chandela che fiorì nei primi secoli del nuovo millennio. Spesso questo popolo viene rappresentato in battaglioni in marcia, perché si riteneva che i Chandela fossero un popolo bellicoso (quando non era immerso in amplessi lussuriosi). Un’iscrizione nel mandapa (padiglion) riporta che il complesso fu terminato durante l regno di re Dhanga. Questo tempio lungo circa 30 metri ospita qualcosa come 800 statue, è meraviglioso. Un’enciclopedia dell’arte. Perdersi tra gli spazi illuminati dalla luce che filtra dalle piccole finestre e dona una tridimensionalità la cui eleganza non ha eguali, è davvero un buon passatempo. Ogni tempio ha una propria anima, qualcosa da raccontare, ed è un miracolo che siano stati risparmiati dalle orde iconoclaste musulmane.
Ultima tappa del giro in questa torrida selva è il vecchio villaggio di cui racconta che Il nome di Khajuraho (in hindi khajur) che significa “palma da datteri”. Questo villaggio, nonostante le caste siano state abolite, vive suddiviso ancora in quartieri che si sfiorano appena. Il quartiere dei Brahmini, quello dei guerrieri, dei commercianti e quello delle persone più semplici. Ognuno con le proprie attività preposte, coi propri barbieri, sarti e le cui pompe idriche possono dissetare solo gli appartenenti al rango del quartiere. Sembra una follia, incomprensibile, ma talmente inculcata nella tradizione che non è minimamente possibile criticarla. Il giro si snoda in piccole viuzze su cui si affacciano le case, per la maggior parte dipinte di bianco e colori pastello, su cui sono evidenti segnalazioni alfanumeriche, che ci spiegano essere le vaccinazioni effettuate dalla famiglia che ci abita. Sul pavimento figure geometriche color ocra precedono l’ingresso nella casa, come se fosse uno zerbino, e ci spiegano essere state realizzate con lo sterco ‘sacro’ delle mucche, con la doppia utilità, oltre decorativa, di allontanare gli insetti. Spesso si incontrano piccoli tempietti, ricchi di doni e statue. Facciamo una tappa in una scuola in costruzione, frutto dell’impegno di un’associazione olandese: il preside e un insegnante si propongono di mostraci le aule e quanto sono riunisciti a realizzare fin ad ora. Di fronte, un’altra ala della scuola sta per essere realizzata, sarà l’orgoglio del piccolo vecchio villaggio. Nel giro tra i piccoli banchi di scuola è come se si sentisse il vociare dei bimbi, tutto è congelato per la pausa di riposo scolastico, ma è paradossalmente vivo e attraente. Su un’enorme lavagna il preside invita Matteo a scrivere un messaggio per i bimbi che lo leggeranno l’indomani. Al termine del giro, dopo essere saliti sul tetto, ci accomodiamo nell’ufficio del preside dove Matteo mette mano al portafogli e lascia un’offerta. Vale ha effettuato molte riprese, è farse uno dei pochi posti dove non gli è stato impedito filmare. Torniamo in città dove ci catapultiamo davanti a dei negozi i cui proprietari sono molesti e noiosi, propongo qualsiasi cosa, uno di essi anche con volgari proposte rivolte urbi et orbi ROKOH (basta in hindi)! Poco dopo in albergo per relax, con una coca e qualche pacchetto di patatine in veranda. Verso sera, dopo un sonnellino, usciamo alla ricerca di qualche venditore di terracotta che mi dicono di essere a poca distanza. Acquistiamo in duplice coppia piatti, ciotole e cavallini e persino due stampi per mattoni personalizzati, tipici della zona. La sera cena all’Indiana dove ‘casualmente’ incontriamo il tafano della mattina che insiste nello scroccare sigarette e molestarci con la sua ridondante presenza. Dall’alto del terrazzo, Khajurao con le sue lucine agitate dal vento, le palme, e in lontananza i mastodontici templi appare simile ad un esotico grande luna park. Il vento soffia e ci regala momenti di piacevole sollazzo. Al rientro, dono delle magliette a Rajev, che felicemente corre ad indossarne, scegliendo quella bianca.

14 agosto

Sono le 8,30 e tra poco lasceremo Khajurao-ao-ao-ao… che, come il jingle Veruschiano di Drive In (orologiao-ao-ao) coniato da Teo che diverrà la colonna sonora della vacanza. La stazione appare dimenticata nel verde, è terribilmente carina, nonostante appaia kitch in quel contesto. È pomeriggio inoltrato, il sole picchia lungo la passatoia metallica che ci porta fuori dalla stazione, Jhansi è caotica, apparentemente devastata e puzzolente. Un tuc tuc ci porta al Kunwer Palace, un albergo di dubbia natura, sito in una viuzza nascosta che da sulla via principale dove si trova una delle statue della Rani, di cui la città orgogliosamente sponsor. Insieme a noi arrivano 4 ragazze russe dall’aria parecchio promiscua che lanciano occhiate ammiccanti con rossetti dai colori improponibili. Mentre cerchiamo di capire come prenotare, il responsabile dell’albergo sortisce con una locuzione davvero insolita: “ITALIANI? WHAT DOES IT MEANS CENTO PER CENTO?” inspiegabile domanda a cui Vale risponde indicando il tasto sulla calcolatrice. Poco dopo mentre attendiamo il collocamento in camera, il solito losco individuo torna alla ribalta con cellulare alla mano, si accomoda presso di noi e ci svela l’arcano, il senso della sua domanda è espletato da un video pornografico italiano su cui lampeggia la scritta CENTO X CENTO. E dio! A seguito dell’episodio ci spostiamo all’esterno dove, poco dopo, ci raggiunge un signore panzuto di una certa età, definito il Boss, della ‘sobria’ struttura hard-texana. Veniamo invitato ad una festa che si terrà per il genetliaco del figlio, nella depandance, dove probabilmente le ragazze russe avrebbero intrattenere. Madre de Dios! Decliniamo cortesemente questo party di maialoni orientali. Altra cosa di cui occuparsi prima di recarci ad Orcha è il biglietto per il giorno seguente in direzione Agra. Un ragazzo della reception si offre di accompagnarmi in stazione per prenotare i biglietti; salto in moto e Vikram dribbla a tutta velocità le auto che disordinatamente vanno ovunque. Una volta in stazione ci accoglie una fiumana di persone ammassate alla biglietteria, ma la lieta notizia, al momento sembra essere che il tutto viene ordinatamente defluito attraverso un distributore automatico di biglietti che gestiscono il flusso. Fortunatamente un tubo, perché la macchinetta consta in una sagoma a forma di mano in cui bisogna apporre la mano. È un substrato di unto e residui vari, qualcosa che potrebbe uccidere un infante occidentale in meno di un’ora se dovesse mai entrare in contatto con il suo apparato orale. Dopo quell’immersione orripilante, passo la salviettina detergente sopra, sotto, dentro e oltre le mani e le unghie. Mi sento putrido. La fila non avanza, mentre le lancette si. Mi scuso con Vikram e gli chiedo se può portarmi in un’agenzia. Sfrecciamo raggiungiamo un pertugio sotterraneo, in meno di 10 minuti abbiamo i biglietti. Vikram, piccolo e sorridente, mi chiede se può sostare a fumare una sigaretta, gliene offro un paio, una invece (1) l’acquista e se la fuma nel retro del ‘bar’ e subito dopo ingoia un salva-alito in polvere per mascherare; dev’esserci davvero in atto una feroce propaganda contro il fumo, perché tutti sembrano terrorizzati. Rientriamo ed essendo troppo tardi per andare ad Orcha, optiamo per il Forte di Jhansi, sito su un promontorio, non particolarmente interessante se non per il fatto che fu uno dei forti che resistettero agli inglesi durante la rivolta dei Sepoy. Qui, la regina Laxmibai ne prese parte essendo stata spodestata in seguito alla perdita del marito e non avendo gli inglesi accettato l’adozione da parte della virago, di un figlio da trasformare in erede. Oggi la Rani è eroina nazionale, adorata al pari di altri eroi e in tutta Jhansi è possibile vedere monumenti o busti inneggianti alla coraggiosa guerriera che perì a Gwailor nel 1858. Il forte è spoglio, triste e poco accattivante già dal suo esterno. Teo non entra perché vogliono fargli gettare le sigarette e l’accendino (con il senno di poi ha fatto davvero bene); un giro veloce, evitando le scimmie e le coppiette che selfeggiano in ogni angolo dei bastioni. Il Lemure non porta la telecamera e si cimenta nell’arte della fotografia. All’uscita ci troviamo alle prese con un signore musulmano dall’aspetto medioevale specializzato nel realizzare giochi impossibili con il ferro, tra cui quello composto da due chiodi che si abbracciano, il tutto mi rapisce per qualche minuto. Inutile non riesco, e mi giunge in aiuto – invano – una ragazza. La frustrazione è così alta che perdo interesse nell’acquisto. Di ritorno facciamo una passeggiata per questa triste e malata città. Null’altro di interessante, e ciò era scritto nero su bianco dalle guide che la consigliavano solamente come base per visitare Orcha. Cena alla Backers Factory, sotto a delle pale che sparano aria gelida, una sofferenza. Un fast food tutto sommato grazioso, funzionale e pulito. In camera verso le 22, doccia, risate e film indiano in tv.

15 agosto

È mattina, il risveglio è segnato dalla più grande e stolkerizzante azienda che interagisce via sms in India: la Vodafone India. Questa azienda inizia a mezzanotte a mandare sms e per tutto il giorno, sempre, è un continuo bit bit. Continuo, incessante. Snervante. Ed oggi, che è Festa Nazionale, ha dato il meglio di sé: Mother’s Pride wishes you a very Happy 71st Indipendence Day! May our great nation always bloom with happiness, prosperity & pride! Ecco, tutto qui, un continuo… Un minuto di silenzio pensando alla nottata che avranno trascorso le russe e un momento di solidale nefasta empatia ci torce lo stomaco. In tv ha inizio la parata cerimoniale al Forte Rosso di Dehli, dove le inquadrature sulle personalità invitate mostrano già rigoli di sudore attraversare la fronte di signore imbellettate già alle 9 del mattino. Il Primo Ministro indiano Narendra Modi marcia solennemente con atteggiamento tronfio e l’incedere di un pavone in abiti tradizionali color arancio indossando un copricapo davvero particolare, con una coda posteriore molto lunga. Il cerimoniale, rigorosamente in hindi, cattura per oltre mezz’ora gli astanti, per poi concludersi con un percorso sul tappeto a zig zag che correva lungo le pareti del forte completamente ricoperto da corone di tagete che ricreavamo perfetti sorrisi arancio. Caffé rigorosamente made in italy e apecar per Orcha. Vale trova una soluzione ‘compatibile’ con lo spostamento e per quei 45 minuti che ci separano dalla meta, riesce a filmare il mezzo che sfreccia – noi compresi – per la città. Sul tuc tuc si trovano 2 ragazzi, che nonostante la festività, lavoreranno e sarà per loro una giornata fortunata. Ad intermittenza, ogni 10 minuti, uno dei due ragazzi sputacchia una poltiglia rossa, assumendo la posizione di un gatto che si fa il bidet, curvando la testa verso il retro/basso per non di colpire il piedone di Teo, che prontamente lo ritira evitando la poltiglia masticata di paan. Giunti nella via sottostante ad Orcha, si percorre un ponte popolato da pigre mucche; il forte si staglia tra un cielo pulito ed un bellissimo fiume, il Betwa, graffiato da rocce color cremisi. La giungla incornicia questo inaspettato posto come nei racconti di Salgari; in lingua locale il suo nome significa ‘luogo nascosto’. Una bella passeggiata lungo i palazzi che si affacciano sulle corti. Un incantevole susseguirsi di scale, portici, terrazze e sale rinfrescate da grate traforate che frenano la luce, ma fortunatamente, non il vento. Teo è molto nervoso, il caldo lo debilita, e non è in vena di scherzare. Anzi, mi frucca in seguito ad una battuta sulla sua maglia inzuppata… I Palazzi dei nawab (nababbi) sorgono sulla cima di uno sperone roccioso fondata nel 1501 dal Rajj Rudra Pratap come capitale del regno omonimo. Si trova su una grande isola situata in un’ansa del fiume, dove svetta come meraviglioso esempio di architettura medievale dell’Uttar Pradesh. Il complesso comprende diversi palazzi collegati tra loro caratterizzati da una grande ricchezza di decori sulle facciate e una meticolosa cura nei dettagli. Tra gli edifici principali spiccano il tempio di Ram Raja, con la sua pianta quadrata, il tempio di Jahangir Mahal, con la torre circolare che si innalza dalla pianta rettangolare, i templi di Chaturbhuj e Laxminarayan e il palazzo di Raja Mahal. Vi è persino un palazzo fatto costruire per il figlio di un Raja che successivamente – si dice – morto suicida per convivere con l’accusa di aver sedotto la moglie di suo fratello… Gli interni, riccamente decorati con dipinti murali tipici della cultura Bundela.

La bellezza di Orcha risiede nel suo perfetto stato di conservazione e nella sua atmosfera tranquilla e pacifica; un luogo perso nel tempo, di una bellezza nostalgica e struggente. Al termine del giro, stavolta dopo aver scavalcato le mucche sonnecchianti sul ponte, che nel frattempo si erano spalmate disordinatamente al sole, ci imbattiamo in un mercato niente male, dove odori e colori contrastanti ci avvolgono quasi stordendoti. Musicisti, banchi di ammennicoli, fioristi, santoni e piattivendoli, dentisti e venditori di the. Un piacevole caos, un nonsoché di messicano. Sono quasi le 10,30, orario pattuito per il rientro, e andiamo verso il tuc tuc. Si riparte, sfreccianti con musica a tutto volume verso un pranzo a Jhansi, l’autista sputacchia ancora il bolo rosso, e Teo, ritrae il piede come in un esercizio di danza. Alla Bakers agghindata a festa con palloncini verde-bianco-rancio per il giubileo nazionale, 13,30 verso la stazione. Si parte per Agra. Piccolo imprevisto; mentre siamo sulla banchina di attesa, sovraccarichi ed anche un po’ stanchi, viene annunciato un non ben specificato ritardo. Chiacchieriamo con una famiglia portoghese vista qualche giorno prima, che ci racconta un po’ la loro decisione di arrivare in India con la figlioletta 14enne. Loro, genitori di una certa età, con viaggi meravigliosi alle spalle, un mondo intero di racconti ed immagini descritte in un piacevole e melodioso inglese, con leggera cantilena lusitana. La figlioletta, con aria terrorizzata ha scelto l’India come vacanza famigliare, per poi pentirsi e scoppiare in lacrime appena giunta a Dehli. Teo li rinomina ‘la Famiglia Rossi’, in memoria della famiglia presa di mira dalla iattura nella saga fantozziana. Il treno non arriva, fa caldo, siamo stanchi e la banchina è sovraffollata. In preda alla paranoia, Teo tiene d’occhio un signore che circumnaviga i nostri bagagli. Ammazziamo il tempo chiacchierando, ma che stufita… Finalmente arriva, dopo oltre 2 ore di ritardo. Ci accomodiamo all’interno e di tanto in tanto scambiamo qualche battuta, prima che l’a.c. inizi a darci tormento. Il freddo entra nelle ossa e così che dopo un’estenuante resistenza, la salvietta in dotazione dalle North West India Railways viene testé trasformata in tappo per i bocchettoni, mentre le lenzuola in una sorta di tenda sepik/burqa, sopra la mia testa. Qualche ora e il sole inizia a calare. Sul treno si ride, anche in maniera incontrollata, di Teo sdraiato su una mensola pericolante di 40 centimetri più corta di lui, del Vale che riesce a cablare e trasformare un vagone di un treno in una centrale Fastweb e di me, ibernato. ‘I Rossi’ mi mostrano un’intervista in portoghese di Arundhati Roy, la scrittrice indiana che leggendo (in portoghese, ma quasi comprensibile) racconta del presidente della repubblica indiano, Ram Nath Kovind, un dalit, ovvero appartenente alla casta degli intoccabili. Agra sembra sempre distante, il buio non aiuta, ma sappiamo che è li ad attenderci insieme al suo meraviglioso e preziosissimo cuore eburneo. Sono le 8 di sera ed il treno ci lancia giù nel piazzale semideserto. Un signor muslim molto magro, Emar, slanciato con indosso una kufia bianca e una simil jallabya si offre di portarci in albergo. È simpatico e chiacchierone, il ragazzo spagnolo picciona nel parcheggio cercando di sfuggire agli autisti, ha fame, e vuole prima mangiare qualcosa; veleggia oltre la strada dopo averci salutati con gli occhi a palla, sparisce ingoiato da Agra. L’homehouse si chiama Coral Three, in onore delle sue splendide ed omonime piante adiacenti l’ingresso dell’edificio. Prima di scendere, il signor muslim rilancia l’offerta precedente di 5000 rupie per portarci a Jaipur, a 4500. Ci pensiamo. L’homehouse è davvero bella, riccamente colorata e piena di oggetti in ogni dove; la proprietaria, una bella indiana di nome Partyba ci accoglie a mani giunte, sorridente e solare, una principessa indiana. Teo si accomoda per compilare il tableau, io e Vale trasportiamo gli zaini. Ma nella penombra qualcosa non va e nel tentativo di salvare le mie ceramiche che stano nello zaino, lo carico in spalla, ma rialzandomi non vedo l’orecchio di tappeto. Faccio così un rovinoso capitombolo che mi ha divelto le ginocchia e la maggior parte delle terrecotte che come lumaca portavo con me, seguito da un urlo a sirena. Sono a terra, penso alle ginocchia dolenti e ai miei acquisti ormai ridotti a coriandoli, il sinistro rumore ormai me lo ha annunciato. Mi rialzo di fronte al Lemure che si sganascia, mentre Teo è indifferente, non si è accorto. Mi ha detto solo, cos’è successo? Senza alzare gli occhi dal foglio delle prenotazioni…. Dolente mi siedo, anzi ci sediamo, in attesa di ricevere la camera al piano superiore. Partyba porta coca e birra e ci chiede se vogliamo cenare, si perché in quella meravigliosa dimora, con pochi ospiti, un cuoco cucina quanto è desiderio degli ospiti! Optiamo per un si, e dalle nostre sedie in bambù vivacemente pittate, andiamo in camera, prima di ridiscendere per cenare in sala da pranzo. La stanza si trova al primo piano, tutto ha un suo piacevole ordine, per modo di dire, è come potrei immaginare la mia casa-indiana. Si vivace, policroma e riccamente piena di oggetti. Davanti all’ingresso della nostra stanza, amache, divanetti e poltrone con un tavolino arricchiscono questo terrazzo dotato di pale. Discesa verso la sala pranzo. Ottima. La sera, quella sera, la trascorriamo a ridercela spalmati in terrazzo, fumando, bevendo e rilassando le membra. Ogni tanto, una ragazza bionda ci fa compagnia fumando una sigaretta, ma non ci degna di uno sguardo. Osservando il giardino si vedono piante altissime, che si lanciano nel cielo oscuro. Nessuna traccia delle stelle, sono un bagliore di una timida luna oltre la veranda, scalfita dalle pale che ruotano in moto perpetuo. Fa caldo, moltissimo, ma la fresca camera dai colori rajasthani ci accoglierà amabilmente in attesa del domani. Ed è la prima notte dall’anima veramente indica.

16 agosto

Martedì. una colazione imbandita al meglio sia possibile. Uova, pancarré, lassi, the e altre specialità indiane. Cambiamo la valuta per la dispendiosa giornata, che prevede un salatissimo Taj Mahal e spostamenti vari. Prenotiamo intanto un’auto per il dì seguente, diretti verso Jaipur. Arriviamo al portone principale del famoso monumento. Già dall’esterno risulta perfetto in tutte le sue forme.
È solo un monumento funebre, ma è limitativo definirlo tale, anche per via delle sue moschee che ne impediscono l’accesso turistico il venerdì, giorno di preghiera.
Per me è la seconda volta in visita al Taj Mahal, ma l’emozione è la stessa, identica. È come se ti sentissi in prossimità della perfezione assoluta. Varcato il portone principale e sbrigate le solite formalità di controllo indiane (ossessive, ma per nulla attente ed oculate), Vale viene blindato, ed è così che anche stavolta la telecamera viene presa in ostaggio. Io e Teo avanziamo verso i giardini centrali e il solo osservare l’edificio bianco candido che mira il cielo è di per sé una faccenda personale. Introspettiva. Vedere quei minareti elevarsi verso l’infinito è un ringraziamento alla vita, all’amore, alla meravigliosa intenzione di sorprendere. Pietre, marmi e proporzioni fanno del Taj Mahal un edificio straordinario. Chissà quanti hanno visto questa immagine, nei libri di Storia, nei depliant turistici, oppure semplicemente digitando su google ‘Agra’. Questo mausoleo voluto e fatto costruire da Sha Jahan, imperatore dal 1628 al 1658, di stirpe islamico/afghana Moghul, è dovuto al grande amore che quest’uomo nutriva per la sua donna, Arjumand Banu, più nota con come Mumtaz Mahal, morta dopo aver dato alla luce una bambina, mentre seguiva il marito in una campagna militare nel sud dell’India a Burhanpur. Era il 1631. Si dice che all’architetto Ustad ‘Isa, come ad altri notevoli figure che lavorarono all’edificazione, Shah Jahan abbia fatto tagliare le mani perché nessuno di loro potesse più creare un secondo edificio simile. I lavori, iniziati nel 1631, continuarono senza interruzione per diciassette anni e richiesero il lavoro di oltre 20.000 operai e oltre 1.000 elefanti. Per ospitarli tutti, nacque davanti al cantiere, una piccola città che prese il nome di Mumtazabad in onore della regina scomparsa. Questa città si sviluppò con una prosperità tale da diventare più importante della stessa Agra. Attraverso la porta si entra nel caravanserraglio, collegato al mausoleo e si giunge al portale del giardino, Due moschee in arenaria rossa e cupole di marmo bianco, fiancheggiano il Taj Mahal: sull’alta piattaforma, rivestita tutta di marmo bianco, con la parte frontale di 94 metri, si erge un cubo di 57 metri di lato con gli angoli tagliati che gli danno la sagoma di un ottagono. Il mausoleo, vero e proprio, è la grande struttura centrale. Sormontato da una cupola, di 26 metri di altezza e 18 metri di diametro. I minareti, collocati agli angoli della piattaforma, delimitano lo cenotafio della moglie dell’imperatore è al centro esatto della struttura. Unico paradosso dell’edificio, è la tomba stessa dell’imperatore, che per riposare vicino all’amata, fu collocata di fianco, risultando l’unico elemento ‘disarmonico’ e la causa ne è proprio il suo mecenate. All’uscita del mausoleo soffia una brezza piacevole, Teo ringrazia il dio Eolo, mentre io cerco a denti serrati di fotografare il Lemure, che una volta assunta la posa, a sua volta viene richiesto per una foto a degli indigeni. Mi riparo all’ombra del minareto, mentre osserviamo delle gaie scimmiette che si lanciano e nuotano nella piscina di fronte ala moschea. Ci lasciamo alle spalle quel gioiello, ed usciamo diretti all’hotel. fa così caldo che è impensabile procedere in alcun dove.
Ed è così che ci spalmiamo per qualche ora in veranda. Due ragazzi italiani ci chiedono consiglio su cosa fare e come muoversi per evitare fatiche inutili, una volta giunti a Varanasi. Sono simpatici con il loro accento toscano, e prestano molta attenzione al consiglio di non lasciare anticipatamente l’albergo prima del previsto. Svegli come due grilli, con gli occhi curiosi lievemente imbrattati di quell’apprensione che poi negli anni viene sconfitta dagli stessi paesi visitati, e l’India è l’India, Never impossible in India, e Varanasi, è la fatica per antonomasia.
Dal terrazzo giungono urla, sembra una lite che proviene dalla stanza sottostante. La sorella della proprietaria, a cui istanti prima abbiamo chiesto qualche informazione riguardo allo shopping da poter fare in città; ci disillude. Sostiene che non ci sia nulla di attraente, nulla di acquistabile. Poco dopo la vediamo portare in giardino a forza, forse prima di cacciare le unghie negli occhi del cognato… Sono le 16,30 orario che ci siamo dati come limes maximum per uscire e sfidare la città. La temperatura sembra aver scaldato a dismisura qualsiasi cosa; dalla strada salgono oltre ad effluvi odorosi, in versione vaporizzata, Vale vuole filmare le viuzze dissestate che si snodano ad est del Taj Mahal, e dirigendoci verso di esso, si accorge che non se la sente, è un discorso etico. La povertà, in queste vie, è vera, tangibile, malinconica e spenta, è la povertà che si annida nella città vecchia, quella millenaria, operosa e intrisa di fatica. Saliamo su un tuc tuc per dirigerci nella sponda opposta del Taj Mahal, ma il giungervi sembra un’impresa da Alessandro in Asia. I cartelli segnano da una parte mentre l’autista va da tutt’altra parte. il Taj View sembra non essere mai stato contemplato dall’individuo che corre alla velocità della luce su una strada stracolma di ogni sorta di mezzo di conduzione. Ad un tratto Teo fa lui notare che il Cartello Taj View indica verso il lato opposto e come se nulla fosse, fa un’inversione percorrendo contromano, in curva, con visibilità azzerata dalla giungla che circonda le strade e che sbuca a cascata, fino ad una rotonda, dove vira di nuovo a 180°, in corsa su e giù attraverso sopraelevate abusive, pendii scoscesi fino a sbucare su una stradina che pare essere l’inizio di quei giardini incompiuti, aborto del progetto iniziale di Sha Jahan di edificare un Taj Mahal nero, sulla riva opposta. Non ce la sentiamo, sia per il costo esorbitante che per il chilometro da percorrere sotto al sole cocente. Ritorniamo sul tuc tuc e sfrecciamo davanti a una serie di negozi che vendono eternit al dettaglio. Incredibile cosa riesce a fare il primo mondo al terzo mondo, che senza vergogna getta sul mercato avanzi tossici che in Europa non è più possibile vendere. Torniamo in città, dove scatta un piccolo diverbio con il conducente, che per un tragitto di massimo 4 chilometri ci chiede 800 rupie – BAHUT MEGHAIN – troppo caro! Ma il tizio non vuole sentire scuse, gli mollo in mano 500 rupie e veleggiamo via… nelle vie interne, girovagando tra i negozi, Teo acquista uno squisito porta-spazzolino da denti tutto traforato. Un caffè in un baretto fetido tanto da poter decidere dove andare a cena: Tea’s Me, una terrazza che a colpo d’occhio sembra carino. Con una fontanella che scende ai piedi di una statua di Buddah, arredato con materiale da riciclo, cassetti, biciclette e tubi. Carino, se non fosse che tutto è stato servito nel peggiore dei modi, senza nemmeno una tovaglia, il minimo accettabile per giustificare un conto salatissimo. Pazienza. Rincasiamo sfranti, vinti, sconfitti dal clima e ci adagiamo ricordando questa ricca giornata, tra i morbidi e colorati cuscini del terrazzino. Ce la ridiamo per un paio d’ore. Domattina alle 10 un’auto ci condurrà a Jaipur con sosta a Fathepur Sikri.

17 agosto

Sveglia alle 8, inizio a sistemare. Caffè, colazione e saluti a Parthyba e partenza per la successiva meta. Dopo circa un’ora, l’auto si ferma in un parcheggio. Molte cose sono cambiate da come ricordavo questo sito visitato 5 anni fa. Una navetta ci porta all’ingresso con in sonnolento impiegato della biglietteria, sbrigate le solite procedure per l’ingresso con telecamera (autorizzata dal bigliettaio, quindi pagata, ma non autorizzata dalla polizia) ci accingiamo ad entrare. Si trova a soli 38 km da Agra ed è stata nominata patrimonio mondiale dell’umanità. Il suo nome significa “Città della Vittoria” e fu fatta costruire da Akbar, della dinastia dei Moghul, che la volle edificare come luogo adatto alla sua grandezza fra il 1571 e il 1585, fu realizzata anche in onore del condottiero Chishti e fu capitale per 14 anni.
La porta principale s’immette direttamente sul palazzo delle udienze(ce ne sono altre 9 distese lungo il perimetro murario che la circonda), dove il re era solito ricevere.
Un impressionante spazio dove è possibile leggere di un anello in bronzo che serviva a legare l’elefante personale di Akbar, il patibolo, le scuderie, l’harem, il palazzo della favorita cristiana e il piazzale dove era possibile giocare con una scacchiera umana. Il Panch Mahal era l’harem del re, una stupenda struttura a cinque piani che secondo alcuni fonti storiche pare abbia ospitato oltre 5 mila donne. Questa città pare sia stata abbandonata appena quindici anni dopo la sua costruzione a causa della mancanza di acqua e delle continue assenze di Akbar, che con animo bellicoso, si assentava molto spesso. Nonostante l’abbandono rimane uno dei monumenti più belli che si possano visitare in India. All’uscita, sostiamo sotto ad un alberello, unico fazzoletto d’ombra a mezzodì. Mentre i ragazzi fumano qualche sigaretta, io vengo avvicinato da un muslim che inizia a parlare, vuoi, volete, fate, facciamo, tutto uno sciorinare consigli e obblighi. Lo invito al silenzio, faccio lui capire che era un momento di relax. Non capisce e gli devo spiegare che era da due ore che ripetevo: Italia, si, Milano, Nord, Turismo… e cercavo di spiegargli che erano le stesse risposte che davo dalla magnana. Non capisce, mi taccia di indisposizione, dopo avermi detto che aveva parlato persino con Carla Bruni. Buon per lui. Dal Buland Darwaza, la porta più grande d’India ci dirigiamo verso la scalinata della moschea di Jami Masjid, che fu un modello per tutte le altre moschee dell’epoca. Meravigliosa scalinata inseguiti da una signora che propina ventagli in paglia. Ci accoglie una distesa assolata di scarpe. Un bimbetto ci aggancia, anzi, aggancia Teo con la scusa di voler parlare italiano. Percorriamo in senso antiorario il portico che circonda la moschea fino a giungere al mausoleo di Sufi Salim Chishti, un mistico ancora oggi molto venerato dove vengono chieste le più disparate grazie, la più gettonata è quella legata al desiderio di gravidanza. Faccio pensiero a tutte le mie amiche in attesa del lieto evento. Ora siamo in mezzo alla spianata ardente, a piedi scalzi, almeno a 50 metri dal porticato laterale, unico luogo in ombra. Allora, Vale ha già raggiunto il lato opposto, mentre io e Teo, a piedi scalzi ci prepariamo alla corsa sui carboni ardenti. Brasé. Ci guardiamo negli occhi ormai fuori dalle orbite mentre accarezziamo la pianta dei piedi. Quel lato della moschea – alla faccia del luogo sacro – è un enorme mercato, in cui manca solo la vendita del cibo! Alla faccia della sacralità. Insomma, giunti all’uscita, Teo mi racconta che il bimbo era molto curioso riguardo al nostro grado di amicizia, si era informato sula durata della nostra convivialità e soprattutto sul gender di appartenenza. Mi aveva soprannominato ’50/50′ e quando, a una trentina di metri di distanza da noi, ha sentito questa parte del racconto, è scoppiato in una sonora risata per poi salutarci urlando CINQUANTACINQUANTAAAAAA….

Navetta. Auto. partenza. Sonnolenti coccolati dall’ondeggio e dall’aria condizionata, percorriamo un paio d’ore di strada fino alla sosta in una sorta di autogrill local. Carissimo. Acquistiamo solo acqua, il classico posto per spennare malcapitati. L’equivalente di 8 euro per un paio di sacchetti di patatine… una follia. Un’altra sosta verrà effettuata dopo circa una mezzoretta, in un posto meno accogliente ma dall’aria meno furbesca. Un baracchino semplice e interamente coperto di mercanzia.
Siamo a Jaipur, la Città Rosa alle 17 circa. Kaylhan hotel, sembra carino, in una zona appartata, lontana dalla caotica capitale del Rajasthan. La camera è abbastanza angusta, ce la sostituiscono immediatamente, anche perché davvero scomoda per le dimensioni di Teo. Piazzati i bagagli e sbrigate le procedure, un rampante desiderio di un buon caffè viene soddisfatto in un locale tanto decantato in città. il Nibs café, un posticino arredato in stile industriale, ricco di elementi simpatici e che – magia delle magie – servono un cappuccino con la cui schiuma disegna il volto di un genio della lampada.
Ad una certa saliamo su un tuc tuc per raggiungere un ristorante che in realtà non esiste. Il primo vero contatto con la città è un pugno nello stomaco con scia di smog. La città è come la ricordo, caotica, brulicante, viva, interamente rosa. Ciondolando qua e là alla ricerca di un’isola serena, strizziamo gli occhi verso la M dorata. Splende e ci richiama, sicuramente ha dell’aria condizionata. La cena in assoluto più spartana, meno speziata e più economica che abbiamo fatto nell’intera vacanza, anche se non propriamente equo-sostenibile. All’uscita c’è un cinema dove impera in corpo 6000 la megascritta della proiezione attuale: TOILET – suona come un richiamo – terremo in considerazione per i giorni a venire. All’angolo sulla strada principale, un venditore di lassi in vasetti di terracotta vende le prelibatezze ai passanti, ingolosito ne prendo uno, insieme a 4 bicchieri vuoti, sia per me che per Teo. Morirò con il lassi-street-food nello stomaco, me lo sento, ho davvero passato il limite. In camera, guardando Kung Fu Panda ce la ridiamo. Una notte serena, accompagnata dal ticchettio di una piccionessa che zampetta intenta a preparare il suo nido sul box dell’aria condizionata posto sul balcone.

18 agosto

Mi sveglio per primo e cercando di contenere il desiderio di svegliare i compagni, preparo il caffè, leggo, stendo, mi lavo i denti, ed esco sul balcone. Li ho un tete-a-tete con la piccionessa che nel frattempo ha gettato i rametti in esubero per terra. Li raccolgo e compongo una montagnetta di bastoncini e li posiziono alla sua portata, ovvero vicino al box del condizionatore. Ogni tanto mi guarda, forse cerchiamo di capirci, sembra quasi riuscire la nostra connessione neuronale. Bah. I ragazzi finalmente si svegliano, o meglio, faccio di tutto per accelerare il processo. Teo di botto si fuma 2 sigarette, osservando il balcone della villetta a fianco, dove una ‘governante’ da lezione di come non dovrebbero esser fatte le pulizie. Senza senso, senza logica, china sulle ginocchia, con una scopa lunga non più di 50 centimetri, avanza pochi passi per volta senza spostare gli elementi sul pavimento. Una lezione di alienante ‘governance’ domestica. Usciamo insieme, Vale con l’attrezzatura al completo pronto a sfidare i controlli che in realtà da subito appaiono meno serrati. Visiteremo l’Hawa Mahal, un edificio che non ho potuto visitare nel precedente viaggio in Rajasthan, perché chiuso. L’Hawa Mahal si affaccia su una delle arterie principale che parta il nome del celebre edificio. In realtà ha un ingresso secondario, vicino al palazzo del Maharaja, ancora parzialmente abitato dalla ex-famigla regnante. È conosciuto anche con il nome di ‘Palazzo dei Venti’ o ‘Palazzo dalle mille finestre’ ed è la star assoluta di Jaipur. Il palazzo dall’incredibile facciata, doveva assomigliare alla corona di Khrishna, divinità alla quale era devoto il raja e fu costruita come un enorme alveare con 950 finestre, piccole cupole in un osservante ordine architettonico. Tutte quelle finestre avevano lo scopo di permettere alle donne dell’harem di affacciarsi sulla strada principale senza essere viste, assistendo così alle cerimonie che si compivano fuori dalle mura del palazzo in direzione del mercato di Tripolia. Il vento si incanala nei decoratissimi reticoli di grate e finestre e produce una sorta di melodia che ha dato il nome al palazzo. Lo spettacolo a cui si assiste dall’alto è davvero unico e dona uno scorcio particolare sulla città rosa. Completato il giro, è bene sostare in un ristoro nel cortile. Tra poco inizierà uno spettacolo di marionette rajasthane, ma alle 11 di mattina la temperatura non permetterà di sostarvici. Ricaricate le batterie si va verso il cuore pulsante della città. I mercanti e i venditori non danno tregua, assalgono esprimendosi subito nella lingua delle prede tenute sotto scacco. È impressionante la quantità di idiomi che conoscono i venditori; ed è cosi che a Teo viene un’idea divertente, quella di fingere di parlare inter-nos una lingua inventata, qualvolta indicando qualcosa, qualche volta semplicemente guardandoci in viso e sorridendo. Beh, l’esperimento ha sortito un effetto molto curioso. I venditori, allibiti, senza capire a quale ceppo linguistico appartenessimo, restano muti e basiti, lasciandoci andare. Entriamo in un negozio della catena Hymalaya, con a.c. davvro forte e ci diamo agli acquisti ayurvedici. Percorrendo la strada perpendicolare all’ingresso del negozio, in direzione opposta al Tripolia Gate – le tre porte consecutive, ci imbattiamo incredibilmente nella rassicurante e onnipresente ‘Famiglia Rossi’, che appesi l’uno allo zaino dell’altro, cercano di avanzare contromano in direzione opposta al traffico. Che risate… Oltre la trafficata e puzzolente via ci sono intagliatori di marmi. Si sgomita un po’ per essere lasciati in pace, ma troviamo qualcosa di veramente interessante; si contratta per una bozza di dea lasciata in un angolo alta circa 30 cm e un elefante per Vale, a cui riesce a far limare un basamento per alleggerirlo di 1 kg circa. Io soddisfo la mia bramosia poco più avanti, acquistando la testa di una mucca a forma di fontana. Ognuno coi propri kg in surplus, veniamo attirati con l’inganno in un maxi shop. Inutile passeggiata se non per acquistare zafferano e un portasapone per Teo. Ma in ultimo, dopo questa snervante passeggiata tra i vicoli sudici, finiamo al piano rialzato, dove un argentiere venditore di pietre, ci accalappia. Per infilare due bracciali a Matteo, il tizio perde oltre 2 ore, infinite, in attesa che pietruzza-dopo-pietruzza, venisse composta sul filo di nylon, senza capire dove avrebbe potuto stare il loro ricavo. Tiriamo sera, abbastanza stanchi del trasbordo e dopo una sortita infruttuosa alla ricerca di un ristorante visto la sera precedente, ma per nulla invitante, decidiamo di andare sulla terrazza, al quarto piano, tra luci colorate, vivaci piante e una brezza pas mal. È un po’ onirico, il tutto, davvero rigenerante.
Si cena bene chiacchierando del di che verrà. La proprietaria ci avvicina e con fare affabile vorrebbe ‘spingerci’ a lasciare un feedback positivo al suo hotel, da subito, e nonostante la nostra reticenza, lei insiste… Vale finge di compilarla, e lei viene educatamente rimessa al suo posto. In camera dopo la doccia, saluto la piccionessa che nel frattempo aveva di nuovo disfatto il nido…

19 agosto

Risveglio e controllo della picciona partoriente. Non vuole il mio aiuto, ed è così che raduno nuovamente la montagna di bastoncini e rametti cercando di facilitarle lo spostamento, tra risentimento e frustrazione. Faccio di tutto per disturbare il sonno di Vale e Teo, che ad una certa si riesumano. Vale beve il caffè direttamente dal collo della caffettiera mentre Teo lancia i pacchetti di cracker spappolati nel cestino, facendo canestro, alla ricerca delle scatolette di tonno da consumare la sera disperse dello zaino. Raccolgo – schiscio schiscio – il pacchettino ridotto in briciole simile ad una clessidra e lo pongo ai piedi del nido, quasi un omaggio alla Dea Pigeoness, che spero consideri. Tuc tuc, direzione Amber Fort ad una decina di chilometri attraverso una strada circondata da una verdeggiante natura, e due speroni rocciosi, naturale baluardo che lo separa dalla città. L’ho già visitato alcuni anni fa, ma lo rivedo più che volentieri, è una boccata d’aria. Giunti alla base, Teo non se la sente di scarpinare fino in alto, per cui alla modica cifra di 400 rupie (un furto) saliamo in cima. Dall’alto un laghetto quasi prosciugato in cui sono immersi alcuni bufali. La rampa d’ingresso è percorsa da turisti ansimanti sotto l’afa compressa da un cielo nuvoloso. Giriamo per le sale e le mura. Da qui si ha una splendida vista sulle colline adiacenti da cui si snoda una muraglia simile a quella cinese attraverso, come una cresta irsuta, lungo la catena dei monti Arawali. Poco più in là si nota un altro forte, il Jaigarth. Da lassù il paesaggio dev’essere davvero magnifico! Ad Amber si può vedere come si siano mescolati vari stili architettonici per dar vita ad un ordine, anche politico della regione. Amber fu la famosa capitale dello stato di Jaipur e deve il suo nome ad uno dei titoli onorifici dedicati a Shiva: Amber Ambekeshwar Mahadao. Giallo, caldo, avvolgente. Due calamite allo shop posto all’uscita, e ritorno a Jaipur, percorso a ritroso in questa giungla dagli accesi colori, percorsa da tuc tuc che come api l’attraversano connettendo questo celato Eden alla caotica città. Sosta pranzo, una tazza di lassi e poi in coda al cinema Mandir Raj, per vedere la proioezione del momento, Toilet, appunto. All’ingresso sembra di trovarsi in un teatro famoso, ricoperto di moquette e con candelabri, luci soffuse e un non so che di elegant kitch. Ingresso al secondo piano, ci accomodiamo in tribuna. Emozione quando parte l’inno nazionale, tutti in piedi, mano sul cuore e via alla proiezione. Altra cosa incredibile dei divertenti film bollywoodiani è quanto sia semplice comprenderli nonostante non si conosca la lingua e non siano sottotitolati, quindi incomprensibili. Insomma, hanno un po’ l’anima dei cartoni animati, semplici, ma ricchi di morale e retorica, colorati, danzerecci e soprattutto coinvolgenti a tal punto da far intervenire il pubblico, che ad alta voce e commenta, con ovazioni, incitando gli attori. Pausa. Si accendono le luci, i miei vicini mi scavalcano, in direzione bar; al ritorno, incuriosito dal loro acquisto culinario chiedo loro se si trattasse di samosa (frittellone ripiene molto piccanti) e in men che non si dica, me ne ritrovo uno in bocca, intero, piccantissimo, ingoiato solo per cortesia all’offerente. Mannaggia a me. Son viola… Usciamo dopo circa 3 ore, allegri, tutti e tre con emozioni differenti, ma sicuri di aver capito più o meno la trama. Siamo divertiti. Torniamo in terrazza. Cena, Teo apre il tonno e lo rovescia sopra. Se lo gusta, mentre noi assaporiamo le solite, conosciute pietanze dai melodici nomi di palak paneer, chapati naan e byriani.

Addio Rajasthan.

20 agosto

Il risveglio ha il suono dell’ultima moca che erutta in Rajasthan. Sono le 8,30, alle 10 un’auto ci trasporterà a Dehli, ma ora di lei nessuna traccia. Un signore nel terrazzo a fianco legge il suo quotidiano su una sedia di plastica. La piccionessa non c’è, o forse si, ma non riesco a vederla, forse immobile. Saluti alla reception, paga Vale anche per me, in quanto resto ormai privo di pecunia. Ci aspetta un viaggio Jaipur – Dehli con 800 rupie, le ultime, se togliamo le 4500 che dobbiamo dare all’autista. Samir, il ragazzino-autista, parla davvero poco, ringrazia per l’anticipo e poi con placida guida, si fa rotta sulla Dehli Highway. Sosta dopo un paio d’ore in una specie di auto parking con dei coniglietti in gabbia nel parcheggio, il caldo è atroce, tanto che i roditori hanno scavato gallerie sotto terra. All’ingresso del centro ristorazione, Vale, incurante delle raccomandazioni sull’economia da mantenere sino alla capitale, acquista schifezze per l’intero ammontare della cifra rimasta, tolti i due sacchettini di arachidi e anacardi presi da me e Teo. Divento una belva. Ed anche il tentativo di spiegargli la situazione fa rovesciare la discussione sulla mia irascibilità… Viola. Decido di star muto per i prossimi 150 chilometri. Nei pressi dell’aeroporto di Dehli, si punta il navigatore, l’autista non sa esattamente dove andare e Dehli, non è certo una cittadina di provincia. È una megalopoli di quasi 20 milioni di abitanti, è gigantesca. Alle 14,30 siamo al Metropole ad un prezzo abbordabile per la bassa stagione, dotato di piscina per sopravvivere alla capitale. Il primo inghippo sta nella prenotazione, una stanza non proprio per tre persone con brandina mignon aggiunta, facente il discutibile ruolo di letto, soprattutto per sopportare il peso di Teo. La contrattazione per sistemare la situazione assorbe un paio d’ore, ma non la spuntiamo. La camera è quella e quella deve restare. Usciamo per fare un giro, ormai è tardi per fare qualsiasi cosa, e passeggiando giungiamo a Connought Place, una serie di edifici/quartieri concentrici di ideazione coloniale, ricchi di viali alberati con di locali, negozi e ristoranti. Assunse questo aspetto quando gli inglesi decisero di spostare la capitale da Calcutta alla new Town di Dehli. È piacevole, ha il suo perché, è una città che nonostante tutto non ti assale, almeno la città nuova, anzi, da come la ricordavo, piacevolmente viva e pulsante. Tutto sembra curato oltre il limite ‘indiano’, verdeggiante, aiuole e fiori, ombra. Si cena in un locale dal nome vagamente rockstar, il Lady Baga, allestito come una spiaggia, con proiezioni marine alle pareti, ologrammi, e un servizio molto occidentalizzato, con tanto di sala fumo, sdraio e angolo bar con palchetto per karaoke. Passeggiamo fino all’albergo, dove l’aria condizionata sbuffa oltre le porte automatiche. Sarà una dura notte, in quel congelatore. Insomma, dopo una di quelle docce che ti ricordi per il resto della settimana in fatto di perfetta pulizia, si va a dormire; Teo e Vale, fanno il loro andirivieni inseguendo il loro incorreggibile tabagista.

21 agosto

Che notte. Sono congelato. ibernato. un merluzzo Findus tolto dal freezer. Ho il mal di testa, un’emicrania che va dall’osso frontale a quello occipitale. Diagnosi: abuso di a.c… Colazione e uscita verso il Gate of India, una decina di minuti per percorrere quello che sulla cartina sembrava dietro all’angolo, al massimo un centinaio di metri. Dehli è grande; in questa parte della città molte cose sembrano surreali, o meglio, non appartenere a questa nazione. È bella, verdeggiante e pulita. Non sembra l’India che tanto ci ha impressionati nei giorni precedenti. Il Gate è gigantesco, un arco che si staglia nel cielo, circondato da ordinati e policromi fiori contenuti in quei tipici vasi fatti a mano, irregolari e di un color terra bruciata dal gusto alimentare. Una piccola orchestra con picchetto d’onore che si appresta ad eseguire l’inno. Sullo sfondo del vialone, come il Capitol Hill, si intravede il Rashtrapati Bhavan, un intricato complesso architettonico, connubio tra stile moghul e quello prettamente vittoriano; pare essere una delle più grandi residenze presidenziali del mondo. L’afa si fa sentire, è una giornata torrida al 28° parallelo, sono si e no le 9,30 ma l’aria già sembra irrespirabile. Sarebbe bello andare a visitare il raj Ghat, dove fu cremato Ghandi, ma è lontano da raggiungere a piedi e il tempo rimastoci non sembra più molto. Meglio dirigerci verso Parghanji, il quartiere dove fare acquisti meltin-pot, garantito dall’affluenza turistica. Non è particolarmente bello, ma è molto caratteristico. Si può acquistare di tutto, dalle collane agli alimentari, magliette, oggetti in legno, bigiotteria e strumenti musicali. Ognuno di noi dà sfogo alle proprie esigenze, dopo aver effettuato l’ultimo cambio ad un cash-office. Troviamo davvero di tutto, tranne quel negozietto che sostenevo di ricordare ‘bene’ la posizione, dove erano stipate vecchie ciotole in legno e anelli di ogni fattispecie. Nulla. Sparito. Facciamo ancora dei giri nella speranza che ci appaia davanti, ma nulla. Rincasiamo sciolti, ora ci attende qualche ora di piscina prima di lanciare le nostre ansie sui bagagli. Insomma, si nuota, ci si riposa e al ripetuto clack-clack generato del bagnino che batte due assi di legno unite da una cerniera per dissuadere le bande di piccioni che si abbeverano al cloro, nuotiamo in questa vasca 1,20 di altezza. Facciamo gara di corsa della geisha, a piedi uniti, gare di nuoto subacqueo, corsa del fenicottero su una gamba sola e sfida con concorrente indiana soprannominata ‘pelnegrini’ (Lorenza docet style). Bella giornata, rilassante e divertente. Un tuffo nel blu limpido che come placenta prepara il nuovo parto a venire, quello che tra meno di 24 ore ci lancerà nelle nostre case, nella nostra routine e porterà con sé tante nuove riflessioni, insolubili pensieri che non sarà possibile rimuovere tanto facilmente, nell’attesa che una sensazione di paura e smarrimento, mista a nostalgia stringa il cuore, restando appesa alla nuova idea di un’India che ci aspetterà di nuovo. Roko – stop!

Le Quattro Nobili Verità:
1. gli esseri umani soffrono: la realtà dell’esistenza personale e del mondo esteriore è dolore, consistente nell’invarianza delle sue condizioni: nascita, malattia, morte, mancanza di ciò che si desidera, unione con ciò che dispiace, separazione da ciò che si ama.
2. la sofferenza nasce dalla ricerca di ciò che è transitorio: desiderio di esistere, il bisogno del piacere e anche il suo rifiuto.
3. Per sconfiggere il dolore bisogna abbandonare l’attaccamento alle cose, alle persone, e ai valori ingannevoli: il desiderio va eliminato.
4. Esiste un percorso da seguire per emanciparsi dal dolore: il nobile ottuplice sentiero.
Il Nobile Ottuplice Pensiero:
1. Retta Visione: contemplazione della realtà com’è, senza inquinarla coi propri pregiudizi, complessi inconsci, abitudini inveterate, ripugnanze innate, limitazioni caratteriali, ecc.
2. Retta Intenzione: possibile solo con un esercizio ininterrotto del controllo della propria rappresentazione concettuale.
3. Retta Parola: cioè sua perfetta corrispondenza, senza enfasi né sciatteria, con l’oggetto enunciato.
4. Retta Azione: agire esattamente quando e quanto sia necessario.
5. Retta Sussistenza: saper mediare fra le necessità della vita materiale e i fini spirituali che ognuno si propone di conseguire.
6. Retto Sforzo: saper adeguare esattamente ogni iniziativa all’importanza dello scopo da conseguire.
7. Retta Presenza Morale: costante ricordo di quanto si fa, si pensa e si sente, in modo da essere continuamente presente a sé stesso;
8. Retta Concentrazione: non lasciare che la mente sosti in stati d’animo depressi o esaltati.
Questo era, ed è, in estrema sintesi, il Buddhismo, una nobile tradizione filosofica (che spesso, fattasi religione organizzata, si è macchiata dei peggiori vizi e crimini di cui sono capaci gli uomini).

 

Moyseion

Graphic Designer/Publisher

2 comments

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  1. Ilaria

    11 Aprile 2018 at 13:36

    Sei davvero una forza della natura… scopro oggi questo tuo aspetto da reporter di viaggi ed è straordinario. Complimenti carissimo Paolo!

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