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Egitto

Egitto

La Tarda Primavera Araba

Departure-icon 30/06/2013 - Arrive-icon 06/07/2013 2

Quella che sto per raccontare è tra tutte, l’esperienza più borderline ed assurda mai vissuta, e che tuttora ci ostiniamo a chiamare vacanza. Definirla tale è come paragonare l’ultimo libro di Jeffrey Deavers al ‘Il cantico dei cantici’; assolutamente fuori da ogni logica vacanziera. Inizio di giugno, Vale scalpita per fare qualche giorno di ferie, approfittando del fatto che devo smaltire almeno una settimana di ferie non godute. Io me ne sarei andato a Bellaria, lui invece vuole visitate il tanto decantato paese dei faraoni, ed io, a detta sua, sarei stato un’ottima guida (in circostanze di normalità geo-politica). Le prenotazioni travagliate anticipano i preparativi, dall’uno a sei luglio, dalla costa mediterranea al cuore pulsante di Giza. Whow! I giorni che precedono la partenza sono costellati da telefonate e sms provenienti da Seham, che al momento si trovava al Cairo, per sondare le nostre vere intenzioni di partire o meno (essendo lei la madre di Sara, colei che ci ha prenotato il volo). Il vero motivo di tutta questo interessamento è stato svelato da li a qualche giorno, intorno alla fine di giugno. Lei stessa ci ha anticipato di una manifestazione di massa in piazza Tahrir indetta per il giorno 30 giugno. I Tg europei per tutta la settimana precedente non parlavano d’altro. Giunto il giorno fatidico, immagini inquietanti venivano visualizzate sulla tv locale egizia. In quel giorno credo di aver guardato ininterrottamente la tv per una decina di ore. Allucinazioni uditive da cronoracconto in arabo da Al Jazeera, decidiamo di partire, forti del fatto che Seham non ci avesse scoraggiati tentando di farci cambiare idea. Dalla casa di Vale, la Bea ci accompagna verso La stazione centrale di Milano, peccato lei non venga, con lei ho visitato quella terra la prima volta ed un sacco di altre volte, lei ci incoraggia, noi le diamo retta, e così un bus verso Orio al Serio. Alle undici circa siamo in aeroporto. Il check in della Saudi Arabia Airlines mostra sul display la nostra destinazione, Alexandria. Chiediamo alle hostess qualche news, ma nessuna sa nulla, niente, come se al Cairo tutto fosse tranquillo. Con noi in attesa due ragazze rumene molto carine quanto proporzionalmente iniettate di botulino, chiediamo un parere a loro su cosa faranno, e di tutta risposta, sottolineando il fatto che sarebbe stata l’unica vacanza in tutto l’anno solare, si dicono disposte a sfidare i carri armati e le legioni faraoniche pur di non rinunciare al villaggio turistico di Borg al Arab, tra Alessandria e Marsa Matruh. Saliamo. Arriviamo. Un po’ di ansia mi stringe la gola, non posso crederci che il mio caro Egitto può provocarmi un tale stato di agitazione. In quel paese mi son sempre sentito a casa, tranquillo, in pace. Stavolta non era così. Giunti all’aeroporto di Borg al Arab alle due di notte, quasi sembra già intravedere il sole. Lo spettacolo che ci si presenta dinnanzi ai nostri occhi con un accenno di alba è meraviglioso. Il taxi corre velocemente sfidando le sinuose strade ricavate tra le paludose acque di Mareotide, il grande lago salmastro alle spalle della città. Canneti ed ibis, un incantevole riverbero increspato, gioco monello del vento marino sulle acque appena violate da qualche feluca di solitari pescatori.

Alessandria si accende davanti a noi, uno scintillante candelabro a cui manca qualche candela, spenta precocemente nel lento scorrere della notte. Giungiamo nel suo ventre passando dai periferici ed assonnati quartieri poveri lungo il canale Mohamedya, per sbucare in un batter di ciglia, lungo la Corniche. Ed eccoci alle quattro e mezza di fronte al nostro albergo il Ramsis, un vecchio e polveroso albergo agee, che certamente aveva conosciuto un discreto successo nei tempi d’oro in cui quella città era un crocevia mediterraneo per panfili e navi da crociera. Un gigante armato di pistola ci accoglie nell’ingresso in ristrutturazione, ci apre la porta in legno intarsiato su uno scenario apocalittico. In ascensore non fiatavamo, eravamo basiti dall’accoglienza. Giunti al terzo piano, alla reception ci indirizzano nella camera, vetusta e polverosa, per non parlare poi delle condizioni meteorologiche avverse che per ore hanno fatto ballare le ante ininterrottamente senza tregua. Troppo stanchi per lamentarci, domani, senza nemmeno troppo pensarci, avremmo deciso il da farsi. Il palazzo Ramsis, è stato scelto perché sorto nell’esatto punto dove un tempo sorgeva il palazzo di Antonio e Cleopatra, il Polonike, e poco più in la, il Timonium. L’idea mi piaceva un sacco, scorgendo un poco la testa dalla camera si poteva vedere il sito del Pharos, il tutto si affacciava su El Ghirsh, la pittoresca Corniche, e non molto lontano, a ovest, su un piazzale preso d’assalto dai manifestanti anti Morsi, qualche fischietto e dei presidi polizieschi lasciavano presagire un’aria un po’, come dire, tesa… Alle nove circa ci si sveglia, con una sensazione da mal di mare che nemmeno ci fossimo arrivati in feluca fin li… Vale ha fame, la solita fame a tenaglia che gli toglie il fiato. Primo vero passo verso la città è stato recarsi da Delices, tappa obbligatoria per iniziare il soggiorno alessandrino. Nell’esatto punto dove sorge questo particolarissimo locale, circa due millenni or sono, sorgeva il Cesareum, edificio voluto dalla regina amante di Cesare per santificarlo e render così più facile il riconoscimento del figlio da lui avuto. Quest’edificio, con l’avvento del cristianesimo divenne una chiesa, e proprio sul suo altare una nobile ed illustre sapiente venne sacrificata in nome della brutale ignoranza religiosa, Ipazia. Di fronte, svettavano anche i due obelischi, i Needle of the Queen, che ora adornano la sponda del Tamigi e Central Park a New York. La lenta, anzi lentissima ordinazione levantina ci fa subito assaporare il piacere di non dover nulla al tempo che corre, così come da millenni a questa parte, tutto crolla e risorge, sulle stesse pietre, senza che il tempo interferisca. Le palme danzano in direzione del mare, nell’elegante piazza Saad Zaghlul, di fronte il Cecil Hotel, brillante gioiello architettonico che sembra aver evitato il polveroso kamseen di striscio, il vento che incessantemente soffia da sud est fino a fine giugno (me ne parlava mamma da piccolo, dicendomi, quel vento in 50 giorni fa maturare i datteri un tutto l’Egitto…). Lungo la Corniche, lentamente iniziano ad aprire i caffè, spuntano i tendoni colorati e si scorgono le vivaci barche policrome spalmate sino allo Yacht Club. Tutto profuma di estate. Tutto sembra già in vacanza, la città stessa ha un aspetto quasi desertico, troppo per essere una città di dieci milioni di abitanti. Costeggiando il Cecil, poco più a sinistra, dopo aver passato il bell’edificio in stile ellenico della Camera di Commercio, appena restaurato, che incrocia via Nabi Daniel, andiamo all’Union Hotel, un albergo già frequentato, il migliore fino ad ora utilizzato in quella città. Al primo piano ci accoglie la solita signora che negli anni ho visto nelle più svariate ed improbabili acconciature. Mi riconosce, si sono lo stesso di sempre, anche lei, unica eccezione la chioma color paglia. L’albergo è bello come sempre, con la sua aria anni ’50, quasi pulito e la camera con terrazzo è la trentatré, vista mare. Ricordo quelle targhe in lamina metallica sopra le porte, le ho viste molte volte e devo dire la verità che il fatto che la numerazione fosse scritta in arabo mi piaceva un sacco. Prenotiamo, chiediamo di aspettare solo il tempo per andare a riprendere i nostri bagagli. Al Ramsis la receptionist colta ci guarda esterrefatti quando le comunichiamo la nostra imminente dipartita, ma come spiegarle che rischiare la vita per utilizzare una presa elettrica, dormire su un materasso in calcestruzzo con ante in orchestra a tambur battente ed una doccia fredda mal funzionante non erano prerogative da vacanza, seppur dal sapore un po’ scrauso… Salutiamo, reverenti, salam aleyykum! L’Union Hotel ci attende a braccia aperte, la camera numero 33 si adagia su un piccolo terrazzino vista mare. Che pace, che gioia dopo una vera doccia. Eravamo dove volevamo essere.

Punto di vista avverso, Vale: Code, visti e bagagli, attesa taxi, colazione. Giungono le 5.00 quando il taxi ci scarica come due sacchi di patate dinanzi al nostro Ramsis Hotel. L’insegna è spenta e quattro scagnozzi seduti ci indicano le scale come Learch accoglie ospiti di famiglia in casa Adams. Un ingresso di macerie, cocci e polvere. È il presagio di un incubo durato tutta la notte. Un gorilla dal petto villoso e un odore nauseabondo ci conduce in ascensore al quarto piano del palazzo fatiscente e probabilmente pendente verso una rovinosa caduta su sé stesso. Ah… dimenticavo, il gorilla sfoggiava una calibro 12 alla cintura. Intimoriti e terrorizzati saliamo in camera. Paolo stavolta ha meritato l’Oscar alla Fotografia, ha scelto la bettola più becera del livello più basso degli alberghi trucidi annoverati nella classifica trash di tutto l’Egitto! Sfasciato dalla stanchezza preferisco non polemizzare sul momento e con scarpe e vestiti addosso mi accascio sul letto di rudo e rumenta che ricoprivano le lenzuola. Tre ore di sonno leggero (cercando di lasciar attiva una parte di cervello atta ai movimenti) impediscono alla mia guancia di venire in contatto con il cuscino e ciò mi ha risparmiato di certo la scabbia o la micosi da infezione curabile solo nel reparto di infettologia intensiva del centro di ricerca delle epidemie endemiche di Zurigo.

Ore 8.00 freschi come due spighe di grano a Santo Stefano, corriamo alla ricerca di un altro albergo, colazione interminabile al Delices, ci da la possibilità di ammirare l’arredo urbano per un paio d’ore prima di raggiungere il nostro tanto caro amato Union Hotel (che preso a sé è becerissimo, ma a confronto degli altri è meglio dell’Hilton).

Decidiamo di fare una passeggiata nel quartiere degli antiquari di Attarine, in una sartoria di Nabi Daniel acquisto due ditali da ricamo simili ad anelli. Sacra unione. Quasi tutte le saracinesche sono abbassate, proseguiamo in direzione del Moyseion, spero di poterlo vedere insieme a Vale, delle oltre 20 volte che sono stato qui, l’ho sempre trovato chiuso, dimenticato in un angolo perpendicolare a Safyya Saad Zaghlul. Il museo, chiuso da tantissimo tempo, è stato persino dimenticato dagli alessandrini, che non ne ricordano più l’ubicazione. Chiuso anche stavolta, Malesh (pazienza…). Si pranza da Elite, atmosfera placida, buon pranzo molto europeizzato, con un paio di birre Stella. Il locale è stato interamente riverniciato perdendo un po’ della sua decadente aria da prigione della vedova Capeto. Non lontano dalla stazione Rahmel (che significa ‘spiaggia’ in ricordo di un non più balneabile lungomare) ne ricalca lo stile anni ’50. Delizioso.

La giornata è segnata dal l’incertezza politica del paese, e ciò ci costringe ad impegnare il nostro tempo con fantasia e giochi di prestigio. Cena al White Restaurant, sull’isola di Faro, nel centro culturale Ellenico, allo Yatch club.  Il White è davvero un posto con una vista incantevole sulla baia, sorge su una lingua di terra di circa 50 metri da costa a costa che conduce al forte di Qait Bey, ovvero l’ex Faro. Il White è tanto bello quanto sconosciuto, qualsiasi taxista arabo lo ignora in quanto snobbato dagli indigeni. Il suo bel terrazzo apre su una spiaggetta con ormeggiate vivaci barche e piccoli catamarani. Uno stereo diffonde Demis Russou, il più romantico e piacevole cantante ellenico, che a visto i natali proprio qui. Piatti a base di pesce, vino egizio e pane appena sfornato ci donano ciò di cui abbisognano. Il locale è deserto, come la città del resto. Oggi pomeriggio per diverse volte elicotteri Apache hanno sorvolato la baia, da Ras el Tin fin sopra la biblioteca, sfiorando di una ventina di metri il terrazzo della nostra camera, facendoci volare i capelli in bagno. Questo per cercare di disperdere manifestanti, detti Tammarrod, che dalle quattro del pomeriggio iniziano ad affluire per le strade sventolando bandiere e richiamando l’attenzione con tamburi e fischietti, per radunarsi nei pressi della moschea Ibhraim. La città è divisa in aree di influenza; in piazza Ibhaim, ovvero nei pressi Ramhel Station stazionano i ‘ribelli’ anti Morsi, incastrati però tra due raduni dei fratelli musulmani, uno in Mansheyya, a circa duecento metri a ovest e l’altro, il più pericoloso, a Sidi Gaber, a circa un chilometro a est. Proprio li, hanno accoltellato un giornalista americano, oggi…

Il nostro albergo si trova esattamente tra Mansheyya e Ramhel Station, tra due fuochi, l’area, parecchio circoscritta tra le due trincee, non lasci molto spazio abbastanza, così, dopo il ristorante, nel resta che adagiarsi nel primo bar sotto all’U.H, allo Sherazade, per fumarsi una shisha. Chiediamo alla gente del posto cosa ci si può aspettare, ma tutti sembrano calmi. Alessandria non è l’Egitto e questo si sa, ma in questo momento non si sa bene cosa aspettarsi, posti di blocco sparsi qua è la ci fanno pensare che la controffensiva governativa non tarderà ad arrivare. Risaliamo in albergo, dove nella hall, la corrispondente americana per il Washington Post scrive incessantemente dalla mattina, fumando come una pazza. Poco più in la, sua figlia, lavora alla sua tesi. La madre chiede aiuto a Vale per il suo mac che a problemi, davvero fortunata visto che il nostro le risolve il problema… Rientriamo in camera un po’ perplessi dopo aver visto i Tg internazionali ed aver sentito amici e famigliari che fi supplicavano di rientrare. Domani avremmo valutato la situazione per decidere il da farsi. Doccia, sigaretta e sguardo sulla baia, layla sayyeda Al’iskandaryya.

Tre luglio, Mattina presto, svegli. La città ci chiama, burrosa colazione in albergo, vento che soffia dalle finestre, un dolce sollievo che agita le incrostazioni di vecchia pittura che pendono da soffitto e fanno agitare i lampadari appesi per la gloria del signore, al solo cavo elettrico. Stamane cerchiamo di nuovo di procurare biglietti in stazione, ma nulla. Nessun treno, no taxi e no bus. Siamo intrappolati in una mastodontica città assediata dal silenzio. Mi prometto di portare il Lemure in visita ai siti archeologici più famosi della città. Si procede a piedi attraversando la piazza Shoada, la circolare di fronte alla stazione dei treni, passando per Rue Sharif e Bab Sadra, in direzione della Colonna di Pompeo. Lungo la strada cerco di acquistare un rosone in gesso, ma non trovo il venditore. Sosta in un piccolo caffè di fronte ad un cimitero gigantesco sorto ai piedi del ex tempio di Serapide, dove una donna piangeva disperata la morte di qualcuno, circondata da altre donne. Copiose lacrime ed urla lancinanti, come da millenni in questo faraonico rito immortalato sulle pareti di molti cenotafi, donne, prefiche, lasciate fuori dal perimetro sacro solo perché donne, e non possibilitate ad osservare una sepoltura in presenza di uomini. Assurdo. Mentre sorseggiamo il te, ci viene offerto l’acquisto di hashish, ed a un nostro rifiuto, il pazzo ne ha inghiottito un pezzo dicendo: it’s good! All’interno del perimetro del Serapeo, visitiamo la colonna mastodontica che lascia Vale sbalordito, dopo ci interriamo nei sotterranei della biblioteca-figlia, che fu rifugio degli ultimi rotoli di sapere prima dell’ultimo grande assalto cristiano indetto per ordine costantinopolitiano, nel 391 e guidato dal vescovo Teofilo. Giretto in direzione delle impressionanti catacombe, Kom El Shoukafa, dove percorriamo la famosa scala elicoidale che arriva sin sotto il livello del mare. Questo è un posto magico, nel suo interno, ibridi cenotafi raccontano di divinità che si son strette la mano per divenire una cosa sola, i custodi del ricordo. Divinità con il volto di Anubi hanno corpi scultorei da gladiatori, visi da serpenti ed aquile antropomorfe, croci Ankh e croci cristiane, soli ed occhi divini, tutto questo spettacolo litico ha un solo significato, sperare di continuare a vivere oltre la morte. Ritorniamo verso Midan Gomorreya, sulla strada acquistiamo un paio di tasbeh (rosari islamici) in legno di olivo da una bancarella in un vicolo sudicio dai cassonetti dell’immondizia talmente divelti e variopinti, da rapire la nostra attenzione per elaborare teorie sull’estinzione batteriologica di quel popolo. La stazione è aperta, cerchiamo di trovare un treno o un taxibus per l’indomani. Di fronte alla biglietteria semi deserta, un poliziotto panzone, seduto a gambe aperte ruota placidamente la solita collanina in legno, ignorandoci. Un po’ basiti dal fatto di non essere strattonati, spinti, scavalcati e soprattutto inascoltati dalla solita urlante folla di arabi ormai da decenni disabituati all’educata e britannica modalità attesa/richiesta/acquisto biglietti, ci rendiamo conto che per tutta la giornata, di nuovo, non si potrà lasciare la città. Mentre stiamo per lasciare la biglietteria, si avvicina a noi un signore non molto alto, con una 24ore in metallo e aria da dottore. Si presenta, si chiama Mohyn, è uno zoologo che vive ad Alex ma che ha una ‘farm’ appena dopo Maryut, e che vedendoci un po’ perplessi di fronte alla naturale nonchalance araba nell’annunciare a due turisti che non è possibile lasciare la città, cerca di tranquillizzarci (anche se non era ‘ancora’ necessario farlo). Ci spiga qualche possibile, ma poco sicura soluzione, e ci invita a pranzo. Lungo la strada ci mostra i vicoli molto suggestivi, ci infiliamo su mia richiesta, nel mercato alla ricerca dei cocci, possiamo la via dove abitava Kavafys. Passiamo l’ospedale annerito dallo smog e camminando speditamente su marciapiedi divelti, andiamo da Mohamed Amhdi, un ristorante libanese famoso per aver ospitato la Regina Sofìa di Grecia. Sono stato diverse volte in questo ristorante e non mi ha mai deluso, ma recarsi con uno del posto è il modo migliore per degustare più cose possibili. Ottimo. Chiacchierare con Mohyn è davvero piacevole, è colto ed aperto, religiosissimo, musulmano osservante ma che riesce a sconfinare dalle assurde barriere che non permettono alle religioni di tendersi la mano. Io è lui ci troviamo e mazzoliamo ben bene quell’ateo di Valerio… Mohyn ci offre un panorama religioso culturale dell’Egitto davvero interessante e non ci permette di offrir lui il pranzo. Ci salutiamo, lui deve andare, ci scambiamo mail e cellulari.

Sono le 16.15 del tre luglio, in Midan Saad Zaghlul, a 300 metri dalla rivolta dei Tamarrod, in Azarita il quartiere ‘luminoso’. La biblioteca è chiusa, l’ufficio del turismo pure, in seguito alle dimissioni del Ministro. Barricati in hotel, in attesa di un comunicato del generale Sissi, il capo dell’esercito. Le Tv locali non parlano d’altro, gli indigeni non fanno più nulla da ore, nell’attesa che qualcosa accada. Di fronte a noi un mare luccicante, poi l’Europa. Leggo uno dei volumi dell’alessandrino Durell, Balthazar, e sogno i locali da lui menzionati e cerco di immaginarmi cosa lui avrebbe scritto riguardo alla sua amata città, in preda ad una crisi politica così forte. Un po’ di apprensione ed il desiderio di assistere a qualcosa di grande. Il popolo egiziano è stanco, ma molto fiero. Riuscire a portare in piazza 15 milioni di manifestanti non è poco, e solo la costanza e il coraggio potranno dar loro ragione. Intanto il mare scaglia le sue onde contro la Corniche di El Ghirsh, sino a Silsila; tutto scorre su questa città come da millenni, lasciandone solo una piccola traccia. Questa è la metafora dell’Egitto.

La calura pomeridiana lascia spazio a fantasie allarmanti sulla situazione cittadina. È impossibile lasciare la città. L’aeroporto è chiuso, non ci sono bus per andarsene al Cairo, dove l’aeroporto sarà certamente aperto e dove almeno ci aspetta Seham, dopo aver disdetto l’albergo di Zamalek, zona troppo vicina a Midan Tharir, fulcro della rivoluzione, oltretutto irraggiungibile. Domani andremo in stazione per vedere se qualche ferruginoso treno partirà in qualche (anche sperduta) direzione, purché lasci aperta uno spiraglio di fuga. La geografia alessandrina è alquanto claustrofobica, una lingua di terra lunga trenta chilometri schiacciata tra il lago Marotide e il mar Mediterraneo, sentirsi accerchiati (con la straordinaria partecipazione di qualche carro armato, gli elicotteri Apache che ti spostano dal balcone mentre passano e le navi della marina nella baia) è davvero una sensazione che non tarda ad appiccicarcisi addosso. Amo questa città e mi fa male sapere che sta vertiginosamente crollando nel caos! Temo più per lei che per noi. Ogni tanto qualche colpo ci fa saltare per aria… È giunto il momento di sdrammatizzare, di uscire, di credere che non si possa restare annichiliti e forse di vederci chiaro. Usciamo, costeggiando le vie parallele di El Ghirsh, Omar Lotfi, subito dopo l’incrocio con Nabi Daniel, dove incontriamo un parrucchiere, e qui inizia il bello. Sembra l’unica attività aperta nell’intero quartiere, insieme a qualche bar, decidiamo per ingannare il tempo, di sistemarci (due dementi) le chiome. Il negozio si affaccia lungo un ampio marciapiede, nel suo interno, circa 20 metri quadrati, un signore elegante d’altri tempi, quella tipologia d’uomo anni ’60, alto, volto nasseriano, appena varchiamo la soglia, dopo aver provveduto con eleganti convenevoli ad accoglierci (e scagliare l’unico cliente che stava tosando, mezzo schiumato, su di una poltrona vista vetrina…), ha dato inizio al primo turno di tonsura, il mio. Mentre mi guardavo intorno smarrito, tra boccette di profumo frutto di una fantasiosa clonazione di griffe dai superbi ed altisonanti nomi del tipo Vertsachi, Georgeo Armany, Pacco Raban mi desto dal torpore per giungere alla consapevolezza che non vi era un lavatesta… Cosa? No no. Magari si trova nel retrobottega. Mimo il gesto del lavaggio testa, lui da tipico levantino racchiude i polpastrelli della mano proferendo la magica formula della lunga attesa, dakik (un minuto) presagio di una lunga attesa. Subito dopo i polpastrelli richiusi si aprono con un gesto veloce e sono accompagnati dall’onomatopeico suono dell’acqua. Io subito dico NO! ricordando quanto avevo visto anni prima, di come con nonchalance, dopo essersi riempiti la bocca con un bicchiere d’acqua, elargivano generosi spruzzi sulla testa del cliente, come bimbi dispettosi alle prese con gli amichetti. Nasser afferra uno spruzzino verde, e come se stesse domando un incendio alimenta folate idriche sulla mia zucca. Subito dopo cerco di far lui capire di non tagliare più di tre centimetri, lui annuisce, ma qui giunge il bello. Con un pettine a denti stretti inizia a cotonarmi i capelli, quasi con sadica violenza, e noncurante dei miei gemiti, mi trasforma in una palla rastafariana, una sorta di Criniera leonina. Compiuto il sadico rituale, con un gesto antico quanto attuale, recide simmetricamente la silhouette creatasi come usansi fare per le bamboline di pezza. Terminato lo scempio ed afferrata una matassa di cotone, non restava che passare alla depilazione facciale. Un lembo di cotone in bocca, una sorta di avvolgimento interno al dito indice e medio e la spagnoletta nella sinistra, con un sacro e ritmico gesto di oscillazione della testa i peli venivano rimossi adeguando il piccolo nodo sulla superficie della pelle. Questo doloroso procedimento, uguale da millenni, lo avevo già provato in Syria, e se devo essere sincero, a confronto del trattamento appena ricevuto sulla chioma, mi è sembrata una passeggiata. Mi alzo, come se fossi uscito da una lavatrice, ora toccava Muraccio, che con occhi sgranati, mi guardava quasi cercando aiuto, un agnello al patibolo. Con il pollice e l’induce è riuscito in due gesti a mimare la lunghezza da tagliare e l’obbligo di cambiare la lametta al rasoio. Tosato pure il Lemure, come una pecorella spaesata dopo l’aberrante rito, Vale si offre di pagare, e vista la cifra, avrà certamente pagato anche per l’altro cliente parcheggiato in attesa del suo turno…

Con il vento che frena tra i capelli e una sensazione elettrica che ci fa tremare i piedi, usciamo in questa per nulla elettrizzante movida levantina. Nessuno per strada, solo qualche sparuto gruppetto di fischiettanti ragazzi e qualche colpo sordo nelle retrovie. In Omar Lotfy, andando in direzione Mansheyya, sostiamo in Midan Tahrir. Ad un tratto all’angolo con la piazza, Vale mi fa notare prima un micino, apparentemente cieco, e poi un altro, anch’esso che vagava visibilmente accecato. Vale conoscendomi ne blocca uno, io l’altro. Li tengo sulle gambe, chiede ad un ragazzo di andare nel negozio a prendere dell’acqua, del cotone e uno straccio. Lui corre, esce, e qui inizia l’operazione di oftalmologia felina. Manipolandoli ed umettandoli un po’, da entrambi fuoriesce il liquido che seccando sigillava le palpebre dei gattini, di poco meno di un mese di vita. Estraggo dalla borsa il Colbiocin (che porto sempre con me per queste evenienze) e disinfetto le palpebre dei piccoli felini. Intorno un nutrito gruppo di ragazzini e passanti fanno cerchio, chi filmando, chi offrendoci aiuto, chi una foto. Chiedo ad uno di loro di entrare in un bar e chiedere del latte…. lui vorrebbe farlo, ma in quel locale, lui ragazzino giovane ed indigeno non può entrare. Bene, ci andrò io. Domando al cameriere un po’ di latte dicendo Qat (gatto) e subito il proprietario accorre, con maldestri tentativi cerca di segare a metà un barattolo in plastica da cui estrae delle olive sotto aceto. A momenti ci rimette l’avambraccio, tento di ripagarlo ma non vuole nulla… lascio la mancia ed esco fiero dai mici. È davvero unico il modo di reagire degli egiziani. Quello che fino a poco fa era un essere ignorato e trasparente, ora diveniva un importantissimo e soprattutto da salvare. Obiettivo raggiunto, i micini, che per imprinting ci hanno appena visti, ci identificano come genitori… Il ragazzino del negozio che ci ha aiutati nell’operazione ci ringrazia, in perfetto inglese, dicendoci: … A nome di tutto l’Egitto, grazie per questo… Gli rispondo che avrebbe dovuto prendersene cura lui, ora, e che se mai dovesse trovarsi in una situazione simile, avrebbe saputo come affrontarla. Mi ha promesso di sforzarsi in quella direzione, anche se dei gatti aveva abbastanza paura. Mi stringe la mano. Andiamo fieri.

Qualche metro più in la, degli anziani ci sconsigliano di proseguire. A Mansheyya c’era troppa polizia, troppi tafferugli, ritorniamo sui nostri passi, per fermarci da Athineo’s per un caffè. Il sole è ormai nascosto dietro ai mostruosi palazzoni di Ras el Tin, trasformando tutta la baia in un grigiastro e butterato semicerchio lunare. Ancora non si sa bene cosa accadrà, sarà la sera decisiva, quella degli ultimatum governativi. Doccia e consulto tv, soliti sms dall’Italia che ci supplicano di tornare, ma al di la del desiderio condiviso (il ritorno) come fare per rientrare con gli aeroporti chiusi? Simuliamo tranquillità e spensieratezza, in realtà il popolo egiziano chiede le dimissioni entro stasera, il governo chiede il ritorno alla normalità, alla cessazione delle manifestazioni, altrimenti entrerà in campo l’esercito. Morsi non arretra, ma nemmeno i Tammarrod hanno intenzione di fermarsi dopo aver trascinato in piazza 15 milioni di esasperati egiziani. Ad Alex ora c’è una calma apparente, chissà, presagio nefasto o di buon augurio? Intanto l’ambasciata italiana al Cairo ci informa sulle zone da cui mantenersi a dedita distanza. Il sonnolento e sciabattante cameriere dell’Union ci porta un paio di birre, chi ci fa concorrenza è solo il marito della corrispondente tabagista americana, sul cui tavolo ormai non si contano più i cadaveri di birra Stella e i mozziconi spenti. Usciamo. Diretti verso Qaddura, il più famoso ristorante di pesce della città, non molto lontano da noi, ma nel cuore di quella lingua di terra che un tempo era l’Eptastadio ed ora si trova proprio dopo Attareen, in direzione Baharyya. Un piccolo louage, l’unico in funzione che si offre disponibile a condurci per la città ed aspettarci. Lo invitiamo al tavolo, ma lui declina l’invito. Una strana e plumbea calma aleggia per la città. Tutto è silenzioso e illuminato dalle sole luci che provengono dai lampioni. Sembra che le persone si siano chiuse al buio nelle loro case, un’immagine un po’ tetra e che non lasciava presagire nulla di buono, la immagino come quando i romani giunsero nella città rassegnata alla conquista (qui tutto si ripete e nulla cambia), impaurita, ma comunque morbida e flessuosa come la luce proveniente da una candela, e come sarà certamente successo poi con persiani, bizantini, arabi, turchi, inglesi… Qaddura si trova in una vietta interna, un piccolo locale chiuso sulla destra, permette di scegliere il pesce appena pescato disteso su un letto di ghiaccio, mentre di fronte, un bell’edificio su due piani con dehor esterno ci accoglie come unici clienti… Una cena deliziosa, nel silenzio spezzato solo da qualche commento che proviene dalla cucina esterna in cui il personale commenta le notizie. Minuti di silenzio, il nostro taxista ci guarda perplesso, quasi a volerci comunicare qualcosa di incomprensibile, indecifrabile. Pochi secondi e qualcuno urla di gioia, il cameriere corre verso di noi è ci sorride, sembra quasi volerci abbracciare. Il taxista ci sorride ed urla ‘finish, finish’ non capiamo subito, ma a quel punto il proprietario emerge dal ristorante per annunciarci che El-Sissi, il Comandante Generale dell’esercito ha disobbedito all’ordine di sparare sulla folla e quindi automaticamente esautorato, disubbidendo, e successivamente destituito il presidente, facendolo arrestare insieme ai suoi fedelissimi. Paghiamo e saliamo in louage, non sappiamo bene che fare… Ma pochi minuti dopo, la città esplode in una festa che definire tale è limitativo. Subito le strade si sono riempite di persone festanti, fuochi d’artificio, carri, motorini con carichi umani di 5 o 6 persone; persino la polizia strombazza a manetta con sirene picchiando manganelli contro pezzi di lamiera. Un vero Bayram, una festa senza eguali, paragonabile solo alla fine di una guerra. Una fiumana di persone si gettano lungo la Corniche, famiglie con bandiere e poster di El-Sissi ancora freschi di stampa. Il taxista ci chiede se vogliamo festeggiare con lui, come rifiutare? Si getta nella fiumana di baccanali, suona, canta e si imbottiglia, corre in direzione di Silsila, dove si trova la Biblioteca, sostiamo due secondi, ma è pattugliata in quanto obiettivo sensibile, e ci chiedono di allontanarci, ma non ci permettono di passare da Chatby, dove un posto di blocco tiene a bada i fedelissimi di Morsi, accampati a Sidi Gaber. Me la faccio sotto continuo ad intimarlo di andare piano, Shway Shway… Piano cazzo corri!… Grazie a Dio ci molla poi in un caffè greco gestito da un elegante signore che vi offre due italian-coffe, nei pressi Shrya Saad Zaglhul o Rue Champollion, non ricordo… Il signore parla italiano e ci spiega gli ultimi eventi. Alessandria è una babele di lingue, qui non è difficile sentirsi rispondere in italiano, ma anche francese, inglese, greco e armeno… Che gioia in tutti loro, il cielo si illumina di fuochi, persino il mare non è cupo e plumbeo, ma bensì una tovaglia su cui cadono briciole dorate dal cielo, dove gli dei festanti banchettano. Ritorniamo a piedi percorrendo Rue Fouad/El Horrya, l’antica via Canopica, il Decumano dove i sovrani celebravano le vittorie percorrendo l’arteria principale dalla porta del Sole a quella della Luna, più ad ovest. Sosta al solito Sherazade, dove fumiamo shisha e beviamo caffè forti per compensare l’emozione del momento. Seduti sui tavoli che si riversano sul marciapiede principale osserviamo la folla festante, sorridiamo, comunichiamo coi passanti. Due signore sedute di fianco a noi ci sorridono, una bimba si avvicina e mi dona un poster del Generale, e la signora mi guarda e un po’ perniciosa mi dice: ‘Our heroes are handsome man!…’ Fantastica! Mi fa ridere un sacco… Verso le due rientriamo in camera, Vale non sta molto bene, forse colpa delle troppe emozioni, dei caffè e della fatica…

Oggi, quattro luglio, il sole brilla più del solito, il vento bussa alla porta finestra della camera, in lontananza, i resti del Faro scrutano da millenni questa turbolenta città che ama, ogni tanto scrollarsi di dosso la polvere del suo passato, come una signora che inaspettatamente si ritrova per terra e rialzandosi, con mani sottili e segnate dal tempo, si risistema gioielli ed orpelli, picchiettando il proprio redingotte color ghiaccio. Scendiamo nella hall, i giornali raccolgono le affermazioni più disparate di tutti i potenti della terra, persino Obama è titubante sul definire questa azione un colpo di stato militare, un’azione responsabile. L’esercito egiziano conta milioni e milioni di reclute, è numericamente maggiore a tutti gli eserciti della zona, ma vive grazie agli aiuti americani, senza di essi, non potrebbe esistere. Ora il presidente Usa dovrà esprimersi in tal senso, osservando attentamente gli sviluppi. La città dall’alto sembra esser tornata alla normalità, i tram arrugginiti hanno ripreso a correre, si vedono bus e taxi, forse ora è davvero possibile andare al Cairo. Lungo la strada si possono notare ancora i segni inequivocabili della baldoria terminata da poche ore.

Per la prima volta da giorni rivedo la città come la ricordavo. Bella e deturpata, viva e attempata, elegante e vetusta, eterogenea e frastagliata, come la definì qualche francese ‘Cannes con l’acne…’. Usciamo per le vie che subito tagliano Nabi Daniel, dopo l’elegante edificio della camera di Commercio in stile neoclassico che punta di traverso verso est, come un tempio dedicato ad uno Zeus protettore dei lavoratori. Per la terza volta si vaga nella piazza della stazione prima e poi nei corridoi di fronte alla biglietteria, pregando di trovare un treno. C’è, grazie a Dio c’è. Vecchi rottami marciulenti gialli e neri, nella versione deluxe blu e bianchi stazionano nell’attesa di qualche passeggero da portare al Cairo. Acquistiamo increduli i biglietti per il successivo, in partenza verso le 11. Torniamo in camera, saldiamo l’albergo, sguardo al blu dipinto di blu e con gli zainoni fuori dalla porta della camera. Dimentico qualcosa, prendo a souvenir la piccola targhetta in numeri cufici 33 che sovrasta l’ingresso. Torniamo scarrozzando due enormi borsoni, prima di attraversare di nuovo la piazza, incappiamo in un piccolo mercatino di cianfrusaglie un po’ agee e li addocchio qualche moneta egiziana di qualche decennio fa… ma il pezzo forte è un sostegno per un abat-jour dalle sembianze di una vestale che incantata verso il cielo, spunta dal marciapiede. Mi avvicino tempestivamente, ma quando la reggo tra le zampe, una baruffa tra venditori con tanto di coltello mi costringe (Vale mi trascina) ad allontanarmi lasciando il boccone a terra… non demordo, mentre sovviene la polizia, che cerca di sistemare la baruffa, mi riavvicino, e per la modica cifra (equivalente in pound) di 3 euro acquisto la vestale (chiaramente ripescata dal mare, coperta di mitili e salsedine) e un paio di libri, per Teo; in uno, degli anni ’50, una donna appone una dedica in inglese al destinatario del libro che termina con al dicitura ispanica di Alejandria, l’altro, Robin Hood, entrambi stampati in Egitto.

Siamo in stazione, fa caldo e c’è un odoraccio di carbone nell’aria da far venire il cerchio alla testa. I treni sono vuoti. Solo qualche soldatino a pattugliare il nulla. Le tappezzerie polverose a motivi improponibili non fanno altre che aumentare le vertigini. Si parte. Ciao amata Alessandria, spero di rivedresti presto…

Tutt’intorno un susseguirsi di situazioni immutate nel tempo, uomini con buoi arano le rive del fiume, un reticolo di canali crea isolette verdi ricche di canna da zucchero e frumento, paesaggi rurali color smeraldo da cui sbucano scheletriche costruzioni in mattoni rossi che delimitano nell’aria ciò che nel tempo prenderà forma per divenire la milionesima bruttura architettonica (anche chi ha la possibilità di impegnare qualche ghinee in più per la costruzione della casa, trascura volutamente l’estetica a favore di chissà cos’altro, forse di una parabolica…). Con il clima fantastico che pisside questo paese, ogni abitazione potrebbe arricchire il panorama urbano e rurale con piccoli giardini, fiori e palmizi. Invece nulla di tutto ciò, morire che si veda sbucare un fiorellino da un balcone… neppure l’acqua manca, pazienza, da tempo ormai, la cultura del bello non appartiene più da agli egiziani.

Siamo a Ramses Station, erano anni che non la vedevo e devo dire la verità, mi son dovuto ricredere. La descrizione che avevo fatto a Valerio non corrispondeva più alla realtà. Quello che prima era un fumoso parcheggio di strombazzanti auto in sosta, in attesa di qualche passeggero da caricare, sovrapposte ad incastro uno sull’altra, ore è una spianata in pietra con una statua di Ramses finalmente visibile. Cerchiamo un taxi, per 80 pound ci porta da Seham che povera ci attende da giorni, con il cuore in gola. Sfioriamo Midan Tahrir, ancora presidiata dai Tamarrod in attesa del consueto raduno serale. Il taxi ci consegna a Rehab, dove, all’interno del compound, sotto ad una pensilina bus adibita all’attesa per la linea privata interna, proviamo la prima vera sonora sberla della calura pomeridiana egizia. Grondiamo come due bottiglie di coca cola tolte dal freezer e messe al solleone. Seham arriva con un bus, ci abbracciamo e le presento Vale. La sua casa, come del resto le altre, è una graziosa villetta con giardino, in un contesto davvero carino, dove si trova di tutto, dai supermarket ai negozietti, dalle moschee alle chiese. Insomma una New Cairo. Abbiamo una cameretta nostra e un bagnetto, davvero tutto più tranquillo. Dopo una doccia ed un caffè, salutiamo Seham per lanciarci verso la Cairo Copta. Bus fino a Roxy, metropolitana in direzione Helwan per scendere a Mar Ghirghis, dove notiamo che la fermata davanti al museo egizio non si chiama più Mubarak, ma Shoadda (dedicata ai martiri della primavera araba). Vale resta appeso tra i passeggeri olezzosi e ne segue i volteggi ad ogni brusca fermata. Quando le porte del convoglio si spalancano a Mar Ghirghis, sembra di rinascere, alle spalle il puzzoso treno che da poco era riemerso. Gli arriva una telefonata dall’Italia, è sua madre, a cui non ha ovviamente detto nulla della sua vacanza in Egitto ed a cui racconta di essere al parchetto sotto casa con Pongo; tutto questo mentre chiassosi arabi urlano canzoni nel loro delicato e mieloso idioma… Di fronte a noi le tiepide pietre color cremisi della basilica di San Sergio e della meravigliosa Muallaka, purtroppo entrambe chiuse per le rappresaglie dei fratelli musulmani contro i copri. Per strada gruppi di soldati armati pattugliano gli angoli sensibili di quell’oasi. Invito Vale, ignaro del poi, a seguirmi alla ricerca del venditore di cocci da cui acquisto ogniqualvolta mi reco al Cairo. Spesa, incetta di terraglia, grandi acquisti. Persino il Lemure acquista una olla e un brucia incensi. Sostiamo una mezz’oretta a gustarci un frappé in un bar dove ad un ragazzo che cercava brutalmente di allontanare un cane, spieghiamo che certi atteggiamenti barbari non fanno altro che allontanare i turisti, tra l’altro inesistenti un questo periodo. Lui sembra capire, almeno all’apparenza… Un ragazzo cerca di venderci ferraglia arrugginita e tra esse una targa stradale che sul momento si trova altrove, pronta ad esser recapitata a nostra richiesta. Il tramonto, la metro in direzione El Margh, Roxy, bus e da Seham. Siamo così stanchi che dopo aver bevuto un te con Seham sembriamo due mummie. Ci spiega ciò che è accaduto in questi giorni e quello che accadrà. Lei è un’attivista, si occupa di radunare e muovere dei gruppi di ragazzi, lei stessa, per molte ore al giorno, torna in Midan Tahrir, insieme ai manifestanti. Alla tv mostrano un video da pelle d’oca, mentre per strada l’imam cieco di Al Azhar, Amhed Tayyeb, il patriarca copto Tadrwos II e il Nobel El Bahradei scendono in piazza mano nella mano, ad Alessandria dei ragazzi vengono gettati giù dai palazzi… L’esercito ormai detentore del potere tiene in sacco i fratelli musulmani asserragliati nel loro quartiere generale, a Nasr City, a non più di un chilometro da Rehab. Ogni tanto qualche sparo ci ricorda cosa sta succedendo fuori da quell’isola tranquilla. Ceniamo in un posto dove la maestra ci aveva già portato, un giardino all’aperto pieno di delizie e piatti tipici. Passeggiamo per le fresche vie cercando un ufficio di cambio, e finiamo in un supermercato. Vale acquista pantaloni e t-shirt in stile egiziano, con pence ai fianchi, color senape. A malapena ci trasciniamo in camera. Morti. Sfasciati. Con polpette di humus al posto dei polpastrelli.

Risveglio nella tranquilla oasi, Seham, già desta da un po’, ci precede di poco per preparare la colazione caffè e plumcake, mentre alla tv immagini inquietanti in loop di proteste e sassaiole, arresti e massacri in ogni dove. La situazione non è per nulla tranquilla. Chi tiene in sacco chi? Dopo qualche ora, siamo di nuovo sul bus, Roxy e metro fino a Giza. Oggi il Lemure vedrà le piramidi, lui così appassionato di miti e leggende extraterrestri. Sulla metro qualche idiota egiziano desideroso di spaventarci, simula il rumore della mitragliatrice. Sopra le nostre teste in Midan Tharir un presidio di ragazzi tutti dipinti sale sulla metro. Si respira tensione ma anche interesse verso ciò che succede. Dopo circa mezz’ora scendiamo alla fermata della metropolitana di Giza, ci siamo quasi… crediamo. In realtà manca ancora un pezzo a piedi, per nulla breve. Tutt’intorno, la calura fa fermentare immondizia e trascuratezza frutto dell’incuria e dell’assenza dell’apparato statale che dura da parecchi giorni. Canali stipati di rumenta, per strada poche persone, una desolazione. Solo qualche commerciante sembra non essersi accorto dell’assenza di persone per il sobborgo e sistema in qualche modo la frutta in quelle meravigliose cassette. Appena giungiamo all’ingresso delle piramidi, subito dopo la biglietteria, ci si appende una falsa guida che ci tormenta, nonostante il rifiuto, volendoci accompagnare alla piramide di Chefren, la seconda in altezza, esplorata nel 1818 da Belzoni. Una tortura, una mosca snervante (comprendo l’assenza di turismo…) che non aggiungeva nulla alla nostra esplorazione, anzi… spero nella solita magica parola che spesso ti scrolla di dosso una moltitudine di fastidi in un sol colpo: KHALAAAASH… ma la cosa non sortisce l’effetto desiderato, anzi, provoca nella falsa guida, una certa rabbia. Impreca e si agita e ci maledice. Ricevere una maledizione ai piedi della piramide non è cosa buona, Carter ne sa qualcosa… All’ingresso non c’è nessuno, baqshis per custodire gli zaini, io Vale e due algerini. Entriamo, una fatica bestiale, a metà del tunnel mi assale un attacco di panico, mentre gattoniamo in quel tunnel di un metro per un metro, mi chiedo se è stata una buona idea, visto il clima politico e la tensione generale, ci manca solo un attacco al sito delle piramidi. Dentro un’emozione, è sempre un’emozione ritornarci. Ti senti nel centro del mondo, credo nemmeno a Time Square a N.Y. ci si senta energicamente così proiettati all’interno dell’ombelico del mondo. Una decina di minuti e siamo di ritorno. Dentro c’è parecchia umidità. La vista del volto senza naso della solenne Sfinge mi ridona la pace. A ritroso sciabattando nella sabbia ardente verso l’uscita. Sosta tra i poliziotti che ci chiedono di tutto, tra sigarette, amiche da dare in moglie, automobili usate e cellulari da vendere. Che stress. Torniamo di novo in metropolita cercando di dirigerci verso il Palazzo Reale di Abdeen, per poi andare a Bab Zweyla, il cuore pulsante della compravendita cairota. Una telefonata dell’ambasciata ci dice di andarcene, c’è stato un attentato poco prima, ma le linee non si sono fermate. Un paio di chilometri a piedi con un’atmosfera abbastanza strana. Un sms da parte dell’Ambasciata ci comunica la situazione attuale e ci consiglia di non uscire dall’albergo (peccato che siamo nel cuore Cairo islamica, ovvero nell’occhio del ciclone). Direzione Khan el Khalili, percorso per qualche metro, ci rassegnano al vuoto pneumatico in quello che un tempo era il quartiere dei mille occhi e delle mille mani (addosso). Venditori rassegnati e sonnecchianti non cercano nemmeno di convincerci ad acquistare. Ci snobbano. Vale acquista incensi e stick profumati. Verso Bab Zweyla, che imperterrita cerca di conservare la sua anima mercantilistica, secolare quartiere dedito al commercio, non si trovano che poche botteghe aperte. I vicoli della città vecchia sono invasi da venditori nullafacenti, in attesa di turisti che non arrivano. Si avvertono moltissimi odori in grado di stordire le poche casalinghe e i loro marmocchi che ondeggiano davanti alle tende colorate dei piccoli negozi che incorniciano le pareti della porta coi due minareti. Gli aromi di cannella, mela, miele, cioccolata che vengono dai piccoli forni invadono le viuzze stagnare sulle merci che traboccano dalle piccole botteghe. Per anni, questo quartiere è stato per me Il luogo dove sfuggire ai ritmi della città farnetica ed ossessivamente trafficata da auto. È venerdì, sono le quattro del pomeriggio e tra poco inizierà la preghiera del giorno santo. Ci si aspettano tafferugli nel quartiere vecchio, ovvero qui. Anche i commercianti ci chiedono di rientrare in albergo, per la nostra incolumità.

Prima di fuggire come novelle Cenerentole, acquistiamo stoffe a righe e qualche cuscino. Di nuovo l’ambasciata ci comunica di allontanarci. In realtà la città non è più sicura, ma come gettarsi nel traffico e prevedere gli spostamenti delle manifestazioni? Sms incisivo. Uscite da quella zona. Mi viene un’idea, un poco rischiosa all’inizio, ma che risulta essere azzeccata. Grazie a Dio un po’ conosco la topografia cittadina, e credo che varcare il Nilo in direzione Jezira sia una buona idea. Nessuna corteo si imbottiglierebbe mai su un ponte, sarebbe troppo facile da tenere in sacco. Da un taxi mi lancio all’acquisto di una ciotola in legno, poi ripartiamo velocemente per Zamalek. L’idea di mangiare qualcosa prima di tornare da Seham in un quartiere tranquillo, di nuovo non piace all’ambasciata che mentre addentiamo una squisita mezé a Nile City, di nuovo ci chiede di lasciare la città. Certo la fanno facile. Forse meglio attendere, dove ci lanciamo a quest’ora, soprattutto in una città di 30 milioni di abitanti in subbuglio? Roboanti elicotteri Apache planano sulle nostre teste in direzione Tahrir, a pochi metri oltre il fiume, dove si vedono salire nere fumate. Il Nile Hilton è stato incendiato qualche mese fa, ci dicono, per essere svenduto poi a malfattori locali, con prezzo ribassato… Quello che anni fa era una piccola oasi pulita dove trovare toilette immacolate e informazioni di ogni genere. I Fratelli Musulmani avanzano in ogni dove, come un torrente in piena. Il Cairo si sta di nuovo scaldando, anche troppo. Paghiamo e all’uscita del barcone fermiamo un taxi. Saliamo, di bianco vestito, puro, un immacolato egiziano integralista vestito a festa ci chiede 60 pound per andare a Rehab.

Taglia subito dopo il ponte 26th October, dove un corteo blocca le strade. Sono tantissimissimi, avanzano. L’esercito blocca le strade, bravissimo il nostro taxista dribbla i check point. Dopo circa dieci minuti capiamo che non sta parlando da solo, ma bensì con la moglie totalmente vestita di nero che si mimetizza con il sedile in pelle nero. Incredibile. Una corsa di oltre un’ora, dove i carri armati sfilano costeggiando le strade. Davvero raccapricciante. Povero Egitto! Rientriamo a Rehab con Seham che ci abbraccia, e finalmente ci confessa di aver avuto paura per noi, ma di non avercelo detto per non spaventarci. Da ora ci proibisce di uscire dal compound. Vacanza finita. Ci racconta della giornata e dell’Esercito che circonda il quartier generale dei F.M. A pochi chilometri da li, a Nasr City. Relax in giardino, prima di cena, in un piccolo spazio dove viene preparata una pizza particolare. Al rientro ci fermiamo da un fruttivendolo, dove chiedo una splendida cassetta della frutta fatta con pezzi di palma che utilizzare o per proteggere i cocci (ne ho già un paio a casa… ma non son mai troppe, meglio abbondare). L’unica cosa che mi dispiace di questo viaggio è legata alle sofferenze di quel popolo a me tanto caro, e al rammarico di aver visto quel Paese stravolto da trambusti politici e dall’amara sensazione che per moltissimo tempo, non riuscirò più a tornarci, come una sorta di esilio. A tutto il popolo egiziano auguriamo il meglio che si possa desiderare dopo anni di assenza totale di democrazia. Alcuni rimpiangono la trentennale presidenza di Mubarak, chissà se davvero si stava meglio quando si stava peggio, io un’idea me la son fatta. Mesaha Allah, Masr / a Dio piacendo, Egitto.

 

Moyseion

Graphic Designer/Publisher

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