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Rajasthan

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India - Amici da diec'anni

Departure-icon 16/08/2011 - Arrive-icon 29/08/2011 2

16 agosto

Ore 5.00 sveglia, ore 5.56 risveglio (56 minuti di ritardo) corsa contro il tempo. Sistemata Zucca (la gatta di Zuccavuota lasciatami in consegna per un giorno e sfamati i miei 4 felini) corro al Giocasteum (casa di mia madre, Giocasta) dove ho appuntamento alle 7.15 con Lory per caffè al cianuro (che sveglierebbe Lenin dall’oltretomba) ci dirigiamo verso la stazione di Lodi, dove il treno delle 7.30 mi scarica in Centrale alle 8.10 (già 2 ore e 20 trascorse). Arrivo in Stazione Cadorna ore 8.20. All’uscita della metro, lo stesso tizio che un mese prima incontro in Turati, mi caccia un foglietto in mano che recita ‘Nam-miho-renghe-chio’ (preludio di quel di, € 30 ricevuta in multa subito dopo). Sesil, mi attende davanti ai tornelli, sorridente e spensierata come al solito. Il suo zaino le assomiglia molto, 20 kg, multicolore e con bindelle e fasce che pendono ovunque. Trascorrono altre due orette e dalla soleggiata ed afosa Milano, ci troviamo nella finnica Helsinki. Non si esce dall’aeroporto, ma ci si accorge, attraverso le vetrate, che il paesaggio tutt’intorno, alla Twilight, non dev’essere per nulla simile a quello lasciato in val padana. I frequentatori dell’aeroporto ne sono la prova. Ad agosto indossano pashmine al collo, maglie a manica lunga e di sandali, sabot o infradito nemmeno l’ombra. Ci troviamo da subito un poco confusi, soprattutto dopo qualche manciata di minuti, quando l’assideramento dato dalla temperatura interna (a.c.) prende il sopravvento, ibernandoci…  Seduti in un relax point di fronte a noi, led di carica batterie blu, ci scrutano. Blu sono anche gli occhi dei nordici che vediamo passare… perle color Baltico che brillano nelle zucche bionde dei finlandesi; gran bel popolo! Unico neo in ognuno di loro sembra esserci un potenziale Brievick, tant’è serioso e freddo… Discutendo amorevolmente con Sesil, qualche minuto dopo esserci alzati, in direzione Duty Free e vedendola ricercare appassionatamente bottiglie di vodka, gin e alcol, (che non sia inferiore ai 40°) mi sorge un dubbio… le spiego che l’alcol probabilmente non ci servirà in India e se mai ne volesse acquistare una da riportare in Italia, c’è tempo al ritorno, dov’è previsto un altro scalo nello stesso aeroporto della stessa città… Temo che possa soffrire di alcolismo, ma anche questa mi sembra un’opzione alquanto inappropriata per una ragazza come lei… A quel punto, Sesil, mostrando un po’ di reticenza nel dovermi mettere al corrente di questa cosa, confessa. Lei, che ne sa una più del diavolo, ha architettato un piano che probabilmente ci si rivolterà contro… Si è iscritta ad un sito di ‘couchsurfing’ ovvero, un sito in cui si mette a disposizione la propria a casa a turisti stranieri, per poi essere ospitati da altri previo soltanto contatto precedente all’arrivo… Tutto questo avrebbe senso se si andasse in un paese dove il carovita potrebbe interferire con i budget di viaggio ridotti, ma non era il nostro caso, non perché fossimo ricchi, ma semplicemente perché l’India risulta essere uno dei paesi più economici al mondo, e gli alberghi costano meno delle pulci al chilo. Mi racconta di Anil, questo caro e disinteressato ragazzo che le ha chiesto, come souvenir europeo, qualsiasi liquido etilico che possa superare i 40°… vodka, whisky gin… un po’ preoccupante!

(17/8/2011 Suzanne da Helsinki mi ha mandato un SMS grazie a Veronica, dicendoci che c’aspetta al nostro ritorno da Delhi per vederci ad Helsinki).

17 agosto –  New Delhi

Arrivo a New Delhi alle ore 7.00 (dopo ben 25 h dal risveglio per la partenza). Anil, l’amico indiano di Sesil (couchsurfing) si è già palesato all’uscita dell’aeroporto con cartello “Paola Milan” (Sesil è il soprannome che le diedi esattamente 10 anni or sono, la sera del suo compleanno, in Croazia… quando ci siamo conosciuti n.d.r.). Trasporto in bus pigiati come le immagini scolpite nel tempio del kamasuthra di Khajiarao (dimenticate però i profumi, gli incensi e le linde epidermidi delle danzatrici indiane della corte che dilettavano amorevolmente il marajà…). Dopo una dozzina di fermate (inchiodate) su questo sgangheratissimo bus presovietico, si scende in tutta fretta in una via che sembra uno scioglingua in dialetto veneziano ‘Anand Niketand’. In fondo alla strada, sulla destra, vive Anil, una casa come le altre intorno, dove nidi di fili elettrici intricati tra loro come solo una cicogna potrebbe ricreare con rametti di recupero, spicca, di un giallo color dello zafferano, la sua casa.  All’interno c’è un’enorme statua di Ganesh, molto simile al proprietario (tarchiatello, viso paffuto e simpatico e con un naso importante, ritratto di un ragazzo di 22 anni) che ci accoglie nel seminterrato, dove un’agenzia ‘famigliare’ di viaggi è preludio di un business di cui non si era parlato prima…la stanza è polverosa, sicuramente arredata con mobili di recupero (ma dignitosissimi) da qualche concierge di un albergo da poco restaurato. Accettiamo il the offertoci, consegniamo la bottiglia di Finlandia Vodka e decliniamo l’offerto giaciglio propostoci da Anil, ovvero, una rete in paglia, senza materasso, nei pressi di un terrazzino protetto da una tarlata mesrabyye su cui un anziano signore, poc’anzi, masticava foglie di pan e ne sputava il purpureo avanzo in una ciotola, appoggiata dove avremmo dovuto rilassare le nostre stanche membra (decliniamo anche perché avremmo dovuto condividere la stanza con altri membri della famiglia, non molto sicura come scelta, visti il sequel di stupri perpetrati in quel paese a danno delle donne…. quasi fosse un’epidemia contagiosa).

Anil è gentile e premuroso, per un giorno si occuperà di noi portandoci in giro per la città. La prima esperienza risciò (consigliatoci da Anil) si è dimostrata subito una tragedia, non tanto per noi, ma bensì per il pedalatore costretto a portare noi tre più i rispettivi bagagli sino a Parganji, vicino alla Delhi Station, il quartiere dove alloggiano i backpekers stranieri in transito per l’India. La via è piacevolmente costellata di fruit shop, negozietti e alberghetti economici. Il Payal Hotel da subito si rivela essere il più adeguato a noi (da eliminare il Byron Hotel o il claustrofobico e fetido Namaskar!). Gli uomini cavallo ci scarrozzano in giro per la città, la Jamaa Masjid è la più grande moschea di tutta l’India, maestoso edificio litico che sembra essersi imbellettato le guance di cipria tanto è rosso fiammante, come una signora che ha esagerato un po’ con il trucco… strano, se si pensa al solito stereotipo di moschea eburnea e nivea dei paesi mediorientali… ma qui siamo in India (Hindustan, per i muslim) tutto è colore e vivacità, un’avvolgente kermesse di cromoterapia visiva; qui persino le pozzanghere non hanno il solito color fanghiglia che crediamo di conoscere, ma bensì riflettono la moltitudine di colori tutt’intorno, o di qualche colorante caduto dalle ceste delle signore che trasportano le polveri per i rangooli.  Passiamo dinanzi al Lal Qila o Red Fort, tutto addobbato con tagete color arancio un po’ appassiti. Il forte è il luogo da cui il primo ministro parlò alla nazione il 15 agosto (59 anni e due giorni or sono), giorno in cui l’India conquistò l’indipendenza dagli inglesi. È anche il più grande monumento della Vecchia Delhi. Il forte è qualcosa di inenarrabili, con il suo Naqqar Khana (“casa dei tamburi”), la corte del Diwan I-Am, il padiglione delle udienze imperiali dove si trova un trono a baldacchino che si racconta essere copia del trono del re Salomone. Passeggiando attraverso i giardini guarniti da canali, si giunge al Hayat Baghs Bagh, o “Giardino che porla la Vita”. Unico neo, il clima caldissimo che incontriamo nell’entra ed esci da questo meraviglioso palazzo delle 1001 notte. Qui, per la prima volta, ci troviamo a dover far i conti con il tanto decantato oscillare della testa tipico degli indiani per annuire, ma da noi occidentali interpretato come un no, che rende spesso incomprensibili le risposte ricevute dal nostro interlocutore (are you engageed? 0scillamento della testa…. But you’ve a travel agency… insistente oscillamento della stessa… ma quindi non ha un lavoro ma ha un’agenzia di viaggio… anzi non ce l’ha… ha negato… non ci capiamo più nulla). Ritorno in autobus, pigiati come sempre, 7 indiane magre come stecchi tentano di infilare le mani nel mio zaino, una gentile signora tutta decorata con bracciali e monili tintinnanti mi mette in guardia e loro fuggono dal bus…. Le donne indiane sono davvero variopinte e arricchite con anelli al naso, bracciali e cavigliere, avvolte vistosissimi ed eccentrici shaari, fanno di loro delle piccole e minute principesse d’altri tempi. Coperte le spalle e la parte dall’omerico alle caviglie, mostrano solo la loro nudità attraverso la pancia e le braccia (questa innocente manifestazione di bellezza, viene però vista con frustrante cupidigia dai connazionali musulmani, che delle loro mogli vedono solo il viso per oltre la metà del giorno). Ci dirigiamo verso la New Delhi Station per acquisto biglietti per ‘Agra’, al Turist Office c’è davvero una temperatura squisita, anzi direi quasi un pochino troppo pungente… Tipo cella frigorifera… Quell’uso davvero sconsiderato che fanno gli abitanti dei paesi tropicali dell’aria condizionata. Ma insomma, almeno si respira un poco. Qui sembra di assistere ad un gioco alquanto strano, dopo aver separato i turisti dagli indigeni (che altrimenti sopraffarebbero anche il più scaltro temerario alla ricerca dell’avventura) vengono indirizzati in questo grande salone posto alla fine di un corridoio buio, afoso e costellato di poveri senzatetto. Un’enorme sala al cui interno, file di sedie disposte a spirale costringono gli ignari ospiti a sedersi per poi alzarsi e scivolare al sedile successivo sono ad arrivare ai desk. Acquistati i biglietti, finalmente riusciamo ad avere i primi minuti davvero ‘liberi’ del nostro soggiorno, e questo non fa che mandarmi il sangue alla testa; siamo a Parganji, una via piena di quello che a un turista desidera avere la prima volta che poggia un piede in India: anelli da mani e piedi (acquistati a kg senza ritegno alcuno), pesta spezie in marmo, orecchini, succhi di frutta al mango, incensi e collane, spezie… Insomma, iniziamo bene coi pesi da trasportare. Ad una certa, un po’ stanchi desideriamo andare in camera, per la prima doccia, e la prima meritata pennica dopo oltre un giorno e mezzo di astenia… Letto cigolante e ventilatore puntato sulla schiena mietono due vittime: le nostre schiene! Mahatma Gandhi Memorial, la Birla House è uno splendido giardino nel cuore di Delhi, una splendida dimora in muratura e legno, con un portico che scivola tutt’intorno ai giardini, dove un percorso tracciato da orme fatte in coccio, segnano l’ultimo tragitto compiuto dal Mahatma prima di essere ucciso. Una pace irreale quella che regna nel luogo in cui fu ucciso l’uomo di cui si ricorda la bontà e l’intransigenza. Colui che riuscì ad ammansire e trasformare la rabbia e lo sconforto di milioni indiani contro gli inglesi. Era il 30 gennaio 1948, venne assassinato da un fanatico indù dopo aver dato l’indipendenza alla sua nazione e al suo popolo. Morendo disse ‘He Ram’ (oh Dio!). Qui, pannelli ricordano i suoi più celebri inviti alla pace, preghiere ed aforismi che insieme alle sue foto in bianco e nero, ancora passeggiano nel silenzio di quel parco. Del Mahatma, tuttavia, molte cose si ricordano. Un popolo, molte religioni, nessun confine. Il primo vero essere ‘limitless’.

Life has been an open book, i have no secrete and i encourage no secretess.

Mohandas Karamcand Gandhi, detto il Mahatma, cioè ‘Grande Anima’. Raccolgo qualche foglia qua e la, nella speranza che su quei piccoli lembi di flora, ci sia qualche molecola lasciata dal grande uomo.

«Vivi come se dovessi morire domani. Impara come se dovessi vivere per sempre.»

18 agosto – Treno per Agra

Come un orologio svizzero (unica similitudine con il paese elvetico) il treno parte alle 17.37 dalla N.D. Station. L’ammasso di ferraglia arrugginita è fetido come mai nella mia vita da cristiano mi sia capitato di vedere. Inferriate ai finestrini, cosparse di polvere che sa tanto di tetano, fornace ardente illuminata al neon, dove le nostre carni si fondono con quelle dei passeggeri più rilassati ma tenacemente decisi nell’impossessarsi di un posto a sedere (non loro) a colpi d’anca, inserendosi in anfratti dove nemmeno una bottiglia di acqua potrebbe starci. Ancora una volta il leit-motif è quello dei templi di Khajurao, il kamasutra! Siamo in terza classe della carrozza, di fronte a noi due nigeriani fuggiti dalla madre Africa e giunti in India per cercar fortuna (evidentemente una delle loro dee animiste al momento della scelta ero ubriaca). I cari noir da subito si dimostrano super-cafoni, gettano roba ovunque, irrispettosi verso la gentile sottomissione proverbiale degli anziani, si palpeggiano, beh insomma, degli individui del cenozoico… Sul treno vendono di tutto: dai dolci, ai giochi, calzini, frittelle, samosa e chiassosissime trombette. Ogni due minuti ululano qualcosa, impossibile chiudere un occhio, impossibile, tant’è che la compagnia di un libro (spesso ostacolata dalla luce al neon oscillante) e il poco allettante panorama esterno cosparso di lamiere e baracche degli slum circostanti, dove le persone di ogni sesso e razza compiono le loro deiezioni vista treno, riescono ad allettare la trasferta. Ad ogni stazione l’odore si fa sempre più pungente, con il calare della notte tutto sembra più grottesco ma anche più avvolgente e promiscuo. Leggo un libro davvero divertente, è di Rosa Matteucci, si intitola ‘India per signorine’. Divertente e dissacrante, ci vuole un po’ di spensierata ilarità in un viaggio come questo, anche se Sesil, in questo è un’ottima compagna, se son la migliore (lei, stranamente più impegnata, si legge ‘città della gioia’ di Lapierre).

19 agosto –  Agra

È sera, scendiamo alla stazione, un risciò verso le 23.00 ci porta in un alberghetto sulla strada principale, al buio sembra ‘quasi’ decente, ma solo la luce del giorno ci potrà dar ragione (o no!). Ramu, un signore di una certa età, proprietario dell’albergo Sakura, ci accoglie e ci piazza in una stanzetta alquanto angusta e moooolto affollata. 8.50 sveglia, dopo una notte trascorsa a tenere a bada le ansie di Sesil, terrorizzata dai gechi e dagli insetti, nonché dai pipistrelli (tutti ospiti della nostra stanza). Un simpatico simposio naturalista ad accogliere due stranieri ignari di cotanta variegata biodiversità. Un poco di bucato fatto per ridare dignità ai primi indumenti consunti, alle 10.00 circa, usciamo per fare una gitarella in una località, diciamo, di ripiego, (in quanto, essendo venerdì – essendo il Taj Mahal una moschea – è chiuso). Il ripiego si presenta da subito una delle cose più inaspettatamente belle che ci sia capitato di vedere. Fathepur Sikr è raggiungibile da Agra dopo un’ora circa. Una cittadina caotica e fangosa ci accoglie ai piedi della città fortificata sorta a ridosso del grande portale d’ingresso. Per raggiungere la scalinata d’ingresso, costellata di capre assonnate sdraiate sui gradini purpurei, bisogna percorrere una via parecchio impegnativa. Tra barbieri improvvisati dispensatori di tetano e chissà cos’altro, bancarelle con fritture e omelette da trapianto di fegato, ragazzini spericolati in groppa ai loro sferraglianti motocicli da farti saltare le coronarie, vedo ed immortalo con la macchina fotografica, la situazione più paradossalmente emblematica della vacanza, lo scatto da copertina, il non plus ultra… Una bancarella di mutande ascellari affianca un altro piccolo dehor alimentare di frittelle e biscotti, il tutto montato su un canale si scolo (fogna a cielo aperto) dove beatamente un maiale sguazzava facendosi un’abluzione al colera!  Tutto ciò si svolgeva in circa un metro quadrato. Incredibile India! La città antica è un posto meraviglioso, arroccato su una montagna, dove un gigantesco portale in arenaria rossa, apre su una moschea stupenda. Il portale è il più grande di tutta l’India, e racchiude nella corte interna un santuario islamico, la Jaami Mashid.

Il quartiere sacro della città, separata dal palazzo tramite un ingresso che era di esclusivo utilizzo reale, il Badshani Darwaza. Fu la principale moschea della città e servì da modello per tutte moschee del periodo moghul. È fiancheggiata da chiostri e porticati e presenta due grandi ingressi monumentali a sud e ad est. La parte più sacra è la tomba/mausoleo in marmo bianco, del mistico sufi Salim Chistie, che nel 1568 annuncio la nascita di un figlio maschio al sultano Akbar, che richiama molti pellegrini, soprattutto quelli che desiderano ricevere una visita dalla cicogna. Io è Sesil, raccogliamo i nastrini rossi, riflettiamo su chi, tra i nostri amici e cari desideri ardentemente avere un pargolo e ci lanciamo in mezzo ad uno stuolo dai indù contro la grata in marmo per legare i nastrini. Io penso a P. e a B., le mie care amiche che tanto, lo desiderano… La costruzione della città/fortezza iniziò nel 1571, nel 1573 era già quasi terminata grazie alla forza lavoro degli instancabili gujiarathi, ma già nel 1583 sembra sia stata abbandonata dal sultano Akbar per la mancanza d’acqua, preferendo Lahore. Strano destino il suo, così bella, affascinante e lussuriosa, dove si racconta che il Khwabgah, l’appartamento privato dell’imperatore, la sera, venisse riempito d’acqua facendo sembrare il giaciglio eburneo del sovrano un imbarcadero; le stanze sono dotate di un ingegnoso pozzo di ventilazione che garantiva aria fresca.

Piacevole passeggiata nelle varie costruzioni, scuderie e piazzali che si snodano lungo tutta la collina. Qualche placida mucca passeggia indisturbata negli spiazzi bagnati da una costante pioggerella, ristoro dei chakra, della mente e soprattutto lontano dal caos indiano. È ormai tardo pomeriggio e l’ora di rientrare ad Agra è giunta. Su un tuc tuc che procede a zigzag per la città, ingoiati da un ingorgo urbano, vedo un maiale che fruga nell’immondizia, circondato da uccellacci neri. Una placida indù avvolta nel suo sari esce di casa, con sé reca una gabbietta, in cui si trova un topo. Temo il peggio per lui, ma mi sbaglio, la signora libera il topino vivo ed eccitato sul cumulo di immondizia, che per la paura corre sotto la pancia del maiale, prima che un corvaccio lo prenda, planando inutilmente da una pianta sita nei pressi…  This is India!

Domani sarà il compleanno di Sesil, è il nostro 10 anniversario di amicizia, un sodalizio nato in Croazia in circostanze davvero divertenti, (su una barca con altre 9 persone) e che negli anni non è mai scemato. Ieri sera siamo stati a cena in un ristorante ‘sai baba’ style, vegano, per nulla buono e molto caro, nei pressi del bazar. Abbiamo cenato cibandoci come gli anacoreti nel deserto nubiano, All’uscita siamo entrati in una piccola gioielleria e lì, chiedo a Sesil di scegliere quello che sarebbe stato il mio regalo di compleanno per lei (in camera avevo anche una lettera da darle, nella busta insieme ai biglietti aerei). Sesil, sceglie un bell’anello a forma di cobra, è felice ed io più di lei, le voglio bene. Per strada decide inoltre di farsi fare un henné, che però ha tentato di deturpare salendo sul tuc tuc… Entriamo in camera, e lì, dopo aver varcato la hall, Sesil lancia un urlo, un piccolo pipistrello l’attende in un angolo buio nei pressi della camera. Lo metto in salvo, essendo lui piccino e a rischio spiaccicamento, ed un po’ emozionato la porto fuori dalla camera. Per lei avevo preparato una lunga lettera prima di partire e l’avevo riposta in un foderino di plastica insieme ai biglietti aerei… Bene, cercando e ricercando nella borsa, n’è degli uni n’è degli altri nessuna traccia. Penso subito a quel gruppo di zingarelle che il primo giorno, sul bus avevano infilato le loro zampa c’è nella borsa e che subito erano state messe in fuga… Pazienza, cerco con un abbraccio di sintetizzare tutto l’affetto che provo per lei. Ci addormentiamo tra le risate e le battute del caso, lei terrorizzata per i gechi, ogni tanto lancia un urlo… La notte scorre poco tranquilla, io in ansia per i biglietti aerei smarriti e per chissà cos’altro, Sesil, vigile come una vedetta in cima ad una rupe, arroccata tipo ultimo giapponese su un’isola del pacifico, scruta i movimenti e le migrazioni delle blatte sul pavimento, delle simpatiche lucertoline bianche sui muri, e perché no, magari qualche piccolo rettile entrato attraverso la zanzariera divelta… Oggi è il compleanno di Sesil il giorno 20. Giunge afosa la mattina, un po’ più nuvolosa del solito, ma ricca di suspance per quello che credo esser l’edificio più famoso di tutta l’India, il Taj Mahal! Questo meraviglioso monumento è la tomba di una donna, Arjumand Banu Begum, più comunemente conosciuta come Mumtaz Mahal (luce del palazzo) la moglie di Shaa Jahan, rimasto vedovo nel 1561, mentre stava per diventare padre per la quattordicesima volta. Il mausoleo è davvero sorprendente, svetta nella periferia di questa caotica e poco caratteristica città orma di provincia, Agra. Nel parcheggio sterrato antecedente in Darwaza (ingresso), una moltitudine di faccendieri sbrigano trattative coi turisti, abbeverano gli animali da soma, giocano a carte, il tutto sotto gli occhi impassibili delle scimmie, che di loro, vorrebbero soltanto qualche nocciolina, biscotto, o perché no, anche qualche gadget prelevato direttamente dagli zaini. Il grande portale d’ingresso incornicia un’immagine prospettica della facciata come se fosse una piccola miniatura. Dinnanzi alla facciata si staglia un immenso e curato giardino, ma ahimè, già troppo affollato per essere immortalato, deserto, all’alba! Almeno a 200 mila persone dev’essere venuta l’idea di visitarlo di buon mattino, senza solleone… Pazienza, il percorso è lungo e zigzagare le persone fa sembrare ancor più irreale quella percezione che si ha, avvicinandosi e trovandoselo davanti, in tutta la sua bellezza. Per costruirlo ci vollero 22 anni, interminabili, in cui ad Agra vennero fatti giungere marmi e pietre preziose dal Rajastan, dal Punjab e persino lapislazzuli dalle terre di Bactria. I suo 4 minareti sono flessi di un paio di gradi verso l’esterno, si dice, per evitare che sollecitati da un terremoto, possano crollare sull’edificio principale. Passeggiare tutt’intorno è certamente una delle esperienze più belle che ricorderò in vita mia, il tutto, reso più suggestivo da una romantica pioggerella, insieme alla mia fida Sesil. Sono contento di essere li con lei. Le voglio bene.

21 agosto –  verso Jaipur

Arriviamo a Jaipur alle 20.00 circa dopo un viaggio very confortable su un pullman della Rajastan Linea. Alla stazione, un tizio avvisato precedentemente da Ramu del Sakura, ci preleva per portarci al Moonlight hotel, dove ci aveva già promessi come clienti. Il M.H. Da subito ci piace, è un albergo di 5 piani con un meraviglioso terrazzo su cui si può cenare, fare la colazione, chiacchierare e qualsiasi altra cosa, lontana dal traffico, mirando il cielo stellato (e che cielo, in India la luna ha proprio la forma che si vede spesso nei fumetti, bianca candida, in un firmamento di stelle). La camera è accogliente, pulita, e c’è persino l’acqua. Si sale sul terrazzo, io ceno con palak paneer e riso bianco (ormai da giorni il mio corpo sembra un erogatore di Coca-Cola…). Sesil si lancia su qualche specialità ultra piccante in stile indiano (coriacea lei, coraggiosa, essendo pugliese). Notte. Buona notte. Ottima notte. Magnana, un simpatico autista di tuc tuc, tale Ibra, in pieno ramadan con digiuno annesso, decide di non lasciarsi scoraggiare dagli stenti e per 200 rupie ci scarrozza per la città, in visita ai monumenti. È simpatico e chiacchierone, mi ricorda il mio compagno delle elementari, Efisio, un ragazzino sardo che non vedo da allora… Jaipur è una città interamente rosa, cinta da mura merlettate e ricca di bazar. Splendida, con un’aria lussuriosa e compatta, brulicante di mercanti e auto. Una città di cui davvero ci si può innamorare. Ovunque fragranze di spezie ed immagini multiformi del pantheon indù ti circondano come un girotondo festoso di bimbetti (non che i bimbetti veri manchino in India). Negli occhi delle persone c’è spesso una luce che forse solo ora, dopo qualche giorno in questo paese riesco a vedere. Una luce che è frutto del contrasto della loro epidermide color caramello e delle orbite color dell’ambra. Il colore della pelle e degli occhi, sono davvero l’unica costante cromatica in questo panorama così rainbow.

Efisio/Ibra, si scopre essere un fiero jaipurino, ovvero un piccolo ragazzo che apprezza davvero le bellezze cittadine, sia hindi che muslim; indossa una khurta bianca (panna, écru, beige…  non proprio bianca), le sue mani sono piccole con delle unghiette ferine molto belle (se fossero un poco più pulite…) con cui insistentemente molesta la trombetta del suo velociraptor/tuc tuc color verde e giallo. La prima manciata di ore viene spesa passeggiando per l’osservatorio astronomico voluto dal maraja Jai Singh II. Il Jantar Mantar è un complesso di architetture utilizzate come strumenti astronomici costruite a partire dal 1727. Il maharaja ne costruì altre cinque: Delhi, Ujjain, Mathura e Benares. Ingegnoso il sovrano! Un po’ a fatica, vista la pendenza della strada, ci porta all’Amber Fort, una fortezza arroccata sulle pendici di una collina, interamente circondata da una muraglia/biscione che si snoda nello stile muraglia cinese, a perdita d’occhio. Appena metto piede a terra, mi cascano gli occhiali da sole appena riadattati in Italia, mi si riga una lente, mi innervosisco per pochi istanti. Fanbagno, chissene… Si sale lungo questa vorticosa gradinata, una sorta di budello che sovrasta il lago placido chiamato Maota, dove mucche altrettanto placide, si abbeverano all’ombra della meraviglia color del pane. Mao Sing Io, il maraja che ne ordinò la costruzione, non badò a spese per quanto riguarda follie e lussi a suo uso e consumo. All’ingresso di Ganesh Gate, ci accoglie un tempio della dea Sila Devi, dea della città di Chaitanya, quando questi n’è esporto il culto dopo aver vinto la battaglia contro il Raja di Jessore. Stanze decorate con pietre preziose, specchi e arredi originalissimi con qualche trofeo faunistico appeso ai muri (segno che la demenza da caccia alle fiere affonda radici nei secoli dei secoli… Amen, alle povere teste di tigre, antilopi e uccelli imbalsamati). Il nome del forte sembra essere una storpiatura del nome della dea madre Amba. Nel pellegrinaggio si susseguono corti e cortili, stanze, templi, prigioni, scalinate e meraviglie a non finire. Persino le scimmiette cercano di sgomitare per comparire in qualche foto coi turisti, come del resto gli indiani, talmente incuriositi dagli ospiti che non perdono occasione per chiedere una piccola foto ricordo con loro. In media per ognuno di noi ci sono almeno 10 o 15 persone che attendono in fila, oppure si intrufolano, facendo di ogni foto, una piccola squadra di calcio. In un cortile un poco soleggiato, all’ombra di una scalinata di pochi gradini, scorgo un anonimo vaso di fiori, protetto però da una grata come se contenesse il sacro pavone d’oro. Mi spiegarono che si trattava del tulsi, il basilico sacro, che ha il potere di rendere fertili le donne (come non crederci in un paese di 1.300.000 di persone) e che a nessuno era permesso staccare delle foglie, se non raccogliendo quelle al suolo. Subito ne prendo un paio, ho qualche amica speranzosa a cui darle… Di ritorno dal Amber Fort, sostiamo qualche ora nell’Albert Museum, edificio vittoriano fatto appositamente costruire per la visita ed il soggiorno del principe Alberto in India in quei giorno di metà del secolo scorso… La vista in questo museo però si protrae a lungo ed anche se il nostro Efisio/Ibra corre a più non posso, troviamo il meraviglioso Hawa Mahal (palazzo del vento) costruito a partire dal 1799, chiuso. Peccato, si narra esser stato costruito come ‘semplice’ facciata antistante all’harem, come finestra per preservare con discrezione le mogli mentre oziose gettavano uno sguardo sulla brulicante città. Color rosa pesca, il palazzo è armoniosamente inserito nel contesto cittadino, sembra un enorme organo di una cattedrale color salmone! Sono ormai terminate le calde ore del pomeriggio e soprattutto la parte culturale, importantissima, lascia spazio ai primordiali impulsi consumistici. L’India è davvero la patria dell’artigianato, del meraviglioso mondo delle chincaglierie e del superfluo. Da subito, appena Ibra sente nominare il bazar, con una mossa astuta cerca di portarci nei soliti negozi a lui affiliati (parenti o amici) a cui daranno poi la percentuale, ma il caro ragazzino, fraintende le nostre intenzioni. Noi-desideriamo-il-bazar! Quello vero, autentico, cencioso e soprattutto indigeno, dove si possono trovare oggetti di uso comune, cocci, utensili da cucina e non stoffe e cuscini patchwork o porta incensi intarsiati in legno. Il primo contatto avviene con una bancarella di ceramiche sgarrupate, dove in prima fila troneggiano le più variopinte e curate ceramiche jaipuregne, ma nel retro bottega, pezzi incompiuti, rotti, mezzi busti in arenaria dei vari Ganesh o Visnu, piatti e altre beltà ci fanno brillare gli occhi. Acquistiamo circa un paio di kg di terrecotte a testa. Dopo un paio d’ore di shopping sfrenato, mentre chiediamo di riportarci in albergo, il caro Ibra, sul suo tuc tuc, ad una velocità supersonica, inchioda dinnanzi ad una moschea. Era il tramonto, la sua penultima preghiera del venerdì sanciva la fine del digiuno del ramadan, e dava inizio ai bagordi serali. Il povero ragazzo, dalle 5 del mattino non aveva ingerito nulla, nemmeno un goccio d’acqua e vi posso garantire, che riuscire a mantenere un ritmo vitale in quelle condizioni climatiche è davvero cosa da pochi… Bravo Ibra, grazie, sei stato una persona davvero carina e gentile; un metro e cinquanta di energia e vitalità. In albergo, dopo una doccia tonificante, la brezza vespertina ci richiama sul terrazzo, dove una semplice cenetta potrebbe ritemprare le nostre stanche membra. Gli occhi ci si chiudono, a malapena riusciamo tra di noi a scambiarsi qualche parola, ridiamo ogni tanto dei fatti accaduti e proprio quando ci viene un forte desiderio e nostalgia del nostro talamo, sopraggiunge il proprietario, inarrestabile, chiacchierone, desideroso di far un po’ di conversazione. Anche lui muslim, si mette a discutere con Sesil di religione, un po’ noioso il tipo, ormai le differenze le si conoscono e grazie a dio (il nostro o il loro, the same) Sesil, molto educatamente, regge la conversazione anche per conto mio. Io, come sempre, da buon narcolettico sognatore, socchiudo gli occhi e, come narcotizzato, con usuale bavetta alla bocca, sogni danzatrici e ventagli al plumage di pavone, veli svolazzanti e musiche mistiche con incensi profumati. Mi svegliano mentre già russo, e l’arrivo in camera dal terrazzo sembra un’interminabile traversata himalayana.

22 agosto – verso Pushkar

Dopo aver trattato con il prolisso proprietario dell’hotel, conveniamo che per ottimizzare tempi e costi, ci converrebbe affittare una macchina con autista per i restanti giorni. Al costo di circa 200 euro cadauno, un baldo giovane, bella presenza, buon inglese e macchina dignitosa, tal Mohyn, ci conduce alla prima tappa del nostro tragitto: Pushkar che in sanscrito significa ‘nata dai fiori’. La leggenda vuole che qui un cigno sacro lasciò cadere un fiore di loto, proprio dove sorge il lago e il complesso templare lacustre, dedicato al dio Bhrama, unico tempio al mondo della sua specie. È una delle città più antiche dell’India, l’affluenza al tempio è inverosimilmente mastodontica, come ogni manifestazione religiosa, dove non si contano mai meno di 20 o 30 mila persone… Ciò ritarda il nostro sopraggiungere al portone principale che quindi si chiude a pochi passi da noi, per non riaprirsi sino a data imprecisata. Addio tartaruga d’argento. Ci consoliamo con qualche piccolo acquisto tipo: bracciale con serpente bifronte in ottone, anello con dio scimmia Hanuman, qualche immagine sacra, camicia stile safari per Davide e scheda per la macchina fotografica. Il percorso a ritroso verso la macchina sembra liberatorio, il sole picchia, le strade brulicano di venditori, incantatori di serpenti e signore sorridenti che offrono dolci e polveri colorate. Sesil è stravolta, a chiazze bianche e rosse, per una donna, L’India è una terra faticosa, per mille motivi, che vanno dagli sguardi, ai palpeggiamenti, ma soprattutto per l’obbligo all’utilizzo delle latrine pubbliche… E qui stendiamo un velo pietoso… Dopo qualche metro veniamo invitati ad entrare in un hashram, ci immaginiamo indiani vestiti di bianco, impeccabili damigelle dai vestiti curati e pavimenti in marmo coperti di tappeti in cocco… Invece lo scenario è ben più crudo. Tre santoni ultra fatti rotolano cenciosi sul pavimento lurido, una dalit/intoccabile cerca con un panno di pulire la corte, un forte odore di marijuana mista a secrezioni animali ci intontiscono al suono di cimbali e campanelle sacre, la vana speranza di trovare una toilette sfuma come le tracce di fumo di un bastoncino di incenso… Usciamo di corsa atterriti. Cazzo! Riprendiamo la via per lo spiazzo auto, dove Mohyn ci attende. Saliti in macchina, un’autostrada tipo Salerno/Reggio Calabria, in cui ogni sorta di individuo può entrare (anche mandrie di mucche, calessi, motorini e risciò)… Mohyn guida spensierato al ritmo di My heart Will go on della Celine Dion remixato in hindi-style ed altri successi anni novanta si susseguono. Cd interessante! Dopo una cinquantina di chilometri, l’autostrada si trasforma in una stradina di campagna, piccola e bozzoluta.

22 agosto – Jodhpur

Questa città, da subito si dimostra affascinante e bella! Il colore in cui sono dipinte la maggior parte degli edifici, l’azzurro, fa di lei un gigante lapislazzulo piantato nel verde smeraldo della campagna limitrofa. Bella al punto che potrebbe essere la capitale dell’India. Il nostro primo contatto con la metropoli avviene verso l’imbrunire. La nostra sistemazione è un grazioso haveli (ex-abitazioni di mercanti facoltosi) con un fascino d’altri tempi. La camera è grande, buia con mesrabyye alle finestre. Una polverosa tenda anti zanzara pende dal soffitto e il ballatoio comune conduce su per un terrazzino, mentre in discesa, verso un incantevole cortiletto rivestito di lastre in pietra, disseminato di resti di statue, splendidi e lussureggianti vasi di fiori. Dopo una doccia e un po’ di ristoro (dopo quasi 10 ore di viaggio) io e Sesil usciamo in città. Una deliziosa piazza con l’orologio, sicuro quanto inutile capriccio di qualche maraja (gli indiani non consultano mai l’orologio, mai!) circondata da mucche sonnecchianti e una varietà di negozietti multicolori di spezie, cocci e stoffe (ahi noi!) che ci costeranno cari! In un negozio di spezie entriamo in contatto con il masala tea, un composto fatto di: una tazza di latte a testa portato ad ebollizione almeno tre volte (bad bacters) mezzo cucchiaino di zucchero, ed uno di masala. Ottimo preparato che gustiamo direttamante nella cucina/negozio della signora, acquistandone poi in gran quantità insieme ad altre spezie e unguenti (Sesil va matta per una linea ayurvedica che si chiama Himalaya e fa incetta di tutto, pillole, tulsi, smalti, unguenti e se ci fosse stato, credo anche il filo interdentale…). Io, all’uscita adocchio un venditore di cocci nella penombra di un enorme albero. Tutta la sua mercanzia esposta mi sembra un tesoro di inestimabile valore, tanto che inizio ad acquistare terrecotte come se si trattasse di riviste… In ordine: vaso conico, ciotoline per spezie, tazzine, statuette di varie divinità e dulcis in fundo, piccola piccionaia da appendere ai rami. Totale peso acquistato almeno 4 kg di fango secco. Geniale! Altre piccole soste in qualche negozietto per poi renderci conto che le rupie erano quasi terminate. Poche monetine, l’equivalente di mezzo euro. Sopraggiunta l’ora di cena e non avendo trovato nessun ufficio di cambio nella città vecchia, abbiamo optato per un banchetto nominato su tripadvisor, per un uovo sodo a testa, servito, tagliato a metà e cosparso di chat masala, su una foglia. Un bicchierino di succo di lycis e una coca. Pittoresca e gustosa cena, in piedi tra i vicoli ancora brulicanti. Questa città dall’aria un po’ medioevale, presenta angoli davvero unici. Rientrando nel nostro haveli, facciamo conoscenza con due ragazzi italiani, Sofia e Mattia, di Milano, simpatici e di compagnia. Il di seguente, al risveglio, dopo aver a lungo osservato il pigro risveglio della città attraverso una finestra, in cui una famiglia, lentamente si muoveva con ordine monacale su e giù per il balcone di casa, dove un piccolo lavandino fungeva da doccia per i membri maschili della famiglia mentre la madre/moglie preparava le pietanze per la colazione… La prima tappa mattutina attraverso le terre del Marwar (terre della morte) è il forte Mehrangarh, una fortezza situata su una collina nelle vicinanze di Jodhpur, la cui costruzione inziò nel 1458, ad opera del capo del clan Rathore Rao Jodh, ed è stata la dimora dei maraja del Marwar. La salita da subito risulta essere lunga e difficoltosa, io è Sesil ci destreggiamo come antilopi saltellando su rocce e rupi, preceduti da nordiche ultralarge che sudano e si sciolgono come cubetti di ghiaccio al sole tropicale, color fucsia e soprattutto con spasmi tipo blocco coronarico ad ogni passo. Ci accoglie all’ingresso una parete decorata con immagini epiche, e il forte risulta essere, a colpo d’occhio, una struttura immensa, possente, la più meravigliosa fortezza che avessimo mai visto! Per 300 rupie, il biglietto d’ingresso con audio guida risultano essere i soldi meglio spesi di tutta la vacanza. Qualche ore di visita, tra sale, saloni, terrazze, prigioni, mura e terrapieni, portali e merletti ad ogiva… E le immancabili foto con indigeni curiosi, dozzine di foto tanto da rendere gli ultimi minuti prima dell’uscita, davvero stressanti… Pomeriggio tormentato dal caldo desertico, ci si getta in città per giro acquisti che termina con lucchetti, un coltellino per babbo, ciotole, quaderni e un amatissimo douna (strumento di legno a forma di mazza da cricket per battere i vestiti nell’acqua), forbici scolastiche e da sarta, campanelle e altri piccoli oggetti da cucina, oltre ad un paio di khussa, ovvero scarpe da uomo a punta. La sera sopraggiunge e una cenetta con Mattia e Sofia in un ristorantino su un terrazzo e vista mozzafiato sulla città con danzatori e danzatrici rajasthani, per salutarli; loro perseguiranno per Jaisalmer, mentre io è la fida, proseguiremo verso Ranakpur. Rientrando in haveli, ci si adagia sul terrazzino dove ci pasticciamo al chiaro di luna con henné, che l’impazienza e il sonno ci fanno spalmare ovunque, causa distrazioni. Alla fine, Sesil si ritrova persino due croci sulle guance e io dei baffi che mi dureranno circa 5 giorni… Risveglio presto, colazione nel solito lounge bar con giardinetto, unici clienti in mezzo a due miliardi di mosche, assassine, che divorano con noi la nostra colazione…

24 agosto – Ranakpur

Un piacevole viaggio ci sgancia da Jodhpur al suono di un Eminem hindi mixed, la direzione è Ranakpur, e la prima breve sosta è di fronte ad un enorme albero di banian con un migliaio di bananone nere di 50 centimetri che si scopre essere pipistrelli… Giunti a Ranakpur si ha subito l’impressione di aver messo piede nella giungla. Verde lussureggiante tutt’intorno, suoni e rumori a noi sconosciuti, tra cui suoni animali ed inserti grossi come mandarini. Una splendida location ci attende, una casa coloniale inglese, restaurata con meticoloso gusto, un paio di dependance distribuite su due lati e giardinetti con prato all’inglese curate a mano, nel vero senso della parola, da giardinieri che con le dita accorciavano l’erba. Stormi di pappagalli colorati svolazzano e cantano all’unisono, scimmie e enormi cervi volanti. La villa stile ‘la mia Africa’ non dista molto da un complesso giainsta/buddista, un’enorme struttura in marmo completante incisa, decorata ed istoriata. Una raffinata eleganza sbuca dalla foresta come una montagna di zucchero a velo, un dolce da assaporare con calma, lentamente e soprattutto riflettendo. Nulla a mio parere, che sia stato costruito da mani umani, riuscirà a pareggiare questa opera. Un angolo dedicato a Buddah mi rapisce attraverso lo sguardo intenso della sua cenerea figura, parlandomi, stordendomi per qualche minuto. Se mai nella mia vita un’immagine ‘sacra’ è riuscita ad entrare in contatto con me, è stato proprio a Ranakpur, in quel piccolo tempietto. Al ritorno una sosta in piccolo centro artigianale ai piedi di una diga, assistiamo alla preparazione del chapati, si passeggia lungo la silhouette del lago sgranocchiando un melograno, raccolgo qualche pianticella nella speranza di portarmi a casa un pezzo di India. Un fresco venticello monsonico soffia intorno a noi mentre ci riposiamo sotto la veranda coloniale. Ci sentiamo un po’ Robert Redford e Meryl Streep nel film sopracitato, osserviamo ed ascoltiamo la giungla che si prepara alla grande pioggia… Si la più grande e rumorosa pioggia che avessimo mai visto; secchiate d’acqua e fruscii di varia natura, un documentario di Life! Mentre ceniamo sotto la rumorosa tettoia in metallo del ristorantino di fronte al giardino, un cameriere mi conferma che l’anello acquistato a Pushkar si tratta di Hanuman il dio scimmia e non di Keshari (il dio leone) come precisatomi a Jodhpur… L’indomani si sale in macchina, penso ad altri douna da acquistare insieme alle bidi, le caratteristiche sigarette indiane…

25/08/2011 Udaipur

In uno scenario a metà tra il lago di Como e la laguna di Venezia, Udaipur sorge a ridosso del lago Picola, un clima ostile e piovoso, grigio fa si che la mia precaria e provata salute venga messa alla prova. Trovata una sistemazione in una dependance a pochi metri dall’acqua, al terzo piano la finestra sporge su un grande albero gigante pieno di scimmiette urlanti, che coccolano un tempio di Ganesh spesso frequentato da sacerdoti e fedeli. L’ingresso dell’albergo è dipinto con tigri giganti e valletti, i gradini per giungere in camera sono stretti ed alti circa 40 centimetri e questo, se si considerano gli zaini pesantissimi, mi danno il colpo di grazie, anzi no… Prima di cadere al suolo esanime, c’è un’ultima battaglia da combattere, quella della toilette… Mi accorgo (non essendo appunto in forma) che i bagni sono infrequentabili, tracce di zozzo decorano la tazza da tempi immemori, ridiscendo la faticosa scala, trascino su un ragazzo dell’albergo che, claudicando a causa di un forte dolore al menisco, impiega qualcosa come dieci minuti prima di salire le scale, maledicendomi. Giunto di fronte all’ignobile immagine, il tizio, con aria davvero stupita mi chiede, indicandomi l’orecchino da donna che indosso (preso a Jaipur): is not good for man! Al che gli rispondo, indicando la tazza del wc intrise si deiezioni umane: This is not good, not my earring… Il tizio insiste: gold?… Io ribatto, scocciato e con crampi sempre più forti: make your business and clean the bathroom… Please! Nel centro del lago Picola sorge un palazzo, ora albergo di lusso che sembra galleggiare tra le acque placide. Scendiamo in città per fare due passi, acquistiamo delle gustose patatine fritte, penso all’idea di farmi un henné ai capelli come usano fare gli uomini, ma vengo dissuaso dal farlo perché i ‘parrucchieri’ locali si prendono carico solo di applicarti il colore, togliertelo sarà poi tua premura, una volta giunto a casa o in camera dell’albergo. Ma il tempo è inclemente e il desiderio di veder il mio corpo tinto di rosso a causa di una pioggia monsonica, mi fa passare la voglia… Sto male, rientriamo in camera e Sesil è gentilmente scesa a comprare un termometro. La sera cerco di cenare in terrazza, non ho voglia di nulla, sono stanco e malmesso, ordino palak paneer che non arriva, mi arrabbio un po’, bevo del the caldo e lascio Sesil a discutere di appannaggi e conoscenze europee del nostro Mohyn… Raggiungo la camera dopo quella via crucis di cunicoli, saliscendi e gradini per giganti delle nevi. Cado esanime sul letto, la febbre sale, sudo ed ingoio per due giorni di fila paracetamolo e tachipirina nella speranza di risollevarmi, ma non riesco. E qui, tra interminabili giornate trascorse nel tedio e febbricitante, si è consumata la fatidica lotta coi primati. È di nuovo mattina, la febbre non scende, mentre la Sesil entra ed esce; vorrebbe star fuori a passeggiare, ma gli indiani sono molesti nei suoi confronti e non la lasciano in pace. Dopo esser scesa a procacciarmi nutrienti caschi di banane e un plumcake, ora esce di nuovo per il suo turno di colazione. Sono circa le nove del mattino, un raggio di sole filtra dalle finestre, e questo ridesta le irrequiete frequentatrici dell’enorme pianta adiacente la nostra camera. Le scimmie mi osservano attraverso la finestra, vedono il casco di banane depositato sul comodino e grazie a le liane che penzolano dai rami come trecce fiabesche, si lanciano contro la finestra per entrare. Saranno almeno cinque o sei, decise ad entrare in camera. Cazzo, sono spaventato, non ho le forze per affrontare delle scimmie indemoniate, non è cosa se si ha 40 di febbre… L’idea che possano entrare e rubarmi la borsa con i documenti mi terrorizza, mi tiro su, corro verso la finestra, la picchetto con lo sgabello e rivado a letto… Loro non demordono e si lanciano contro i vetri…. Tremo, forse per il freddo o per la paura… Lo stupro da parte dei primati sarebbe davvero da ignominia e suicidio…. Grazie a dio, dopo pochi minuti, un canto che proviene dal tempio di Ganesh, attira le scimmie, che si dirigono a spron battuto verso le campanelle e un sicuro pasto portato dai pellegrini… Sono salvo. Rientra Sesil, le racconto l’accaduto, mi guarda perplesso, ridiamo. Deliro. Sto male… Udaipur, se ci fosse un po’ di sole, sarebbe davvero caruccia, ma in piena tempesta monsonica e con 40 di febbre sembra l’inferno in terra. Chiuso nella mia stanzetta microscopica con finestre su tre lati, vaneggio, sogno, leggo India mon amour di Lapierre, Il Volga e Sulle tracce dello Yeti di Bruce Chatwin… Sogno doccia purificatrice e liberazione da sudario, ovvero la coperta termica presa sulla Finnair, risultata essere provvidenziale visto i brividi. Sesil entra ed esce come una scheggia impazzita, si fa massaggi ayurvedici e acquista pillole di ogni specie, dai rimedi contro le calvizie ai carboni intestinali. Una matta.

27/08/2011 verso Jaipur

Risvegli all’alba, sto leggermente meglio, ma ho ancora la febbre. Prendo moment e tachipirina, indosso felpa e tiro la culice fino a lasciar fuori solo un occhio, jeans e salvietta sulle spalle. Fuori dall’auto di saranno almeno 50 gradi, io mi sento in Siberia a gennaio… L’autostrada indiana meriterebbe moltissime pagine, ed io dal mio monocolo osservo la guida totalmente no-sense di Mohyn. Mandrie di mucche circolano liberamente in ogni dove, carcasse di animali giacciono al suolo dove corvi delle dimensioni di pterodattili beccheggiano spensieratamente (purtroppo è la vita) le carogne, intere famiglie sostano nelle aiuole di mezzo tra le varie corsie, vendono, lavano abiti e vivono in quei tre metri quadrati di verde tra l’asfalto. La velocità di Mohyn è davvero paralizzante, schiaccia l’acceleratore come se non ci fosse un domani, schiere di angeli appesi sul cofano della nostra auto, ci proteggono, anche dalle inversioni improvvise dei tir, che cambiano direzione di percorrenza nella stessa corsia dove pochi istanti prima si dirigevano nella parte opposta! Un vero incubo! I clacson sono un diversivo alle note che la radio rigetta a mille decibel nell’abitacolo… Ricky Martin, Shakira, Raf e un’amata Janis Joplin intona Because the night… Sesil canta come un’invasata, forse un mantra per allontanare la paura, forse un’insolazione… Non c’è nulla da cantare… Cazzo! Come se non bastasse, una brusca inchiodata con annessa retromarcia ci paralizza, a momenti finiamo nel cruscotto della auto, di fianco al mini altarino a Ganesh… E questo per cosa? Mohyn ha visto un turbante carnevalesco perso da qualcuno sull’autostrada e ha visto bene di raccoglierlo, lo indossa seduta stante e ciò lo galvanizza ulteriormente facendo aggiungere altri 20 km orari alla già allucinante velocità di marcia… Il termometro segna 37,5 gradi, la febbre si abbassa lasciando spazio ad un soffocante mal di testa… Arriviamo al M.L.H., saluti di convenienza e raccomandazioni varie al nostro caro autista, davvero un bravo ragazzo, che da conducente di risciò, passando per autista di tuc tuc, ora sogna l’acquisto di un’automobile tutta sua. Un augurio che gli facciamo, insieme all’insistente preghiera a non correr più così veloce per le strade cittadine… In albergo caccio giù un moment act che risulta essere salvifico. Rinasco, il sole di quella città mi ritempra, doccia e son pronto ad uscire, sudacchio ancora un po’ ma nulla a confronto dei giorni precedenti. Sono molto felice di tornare alla vita, con Sesil… Lei quasi non credeva stessi così male, mi diceva che frignavo, che ero un lamentino… Insomma, non la picchio perché le voglio bene, e perché soprattutto le punizioni spesso se le infligge da sola (vedi scelta di piatti moooolto spicy…). Uscita per le vie del centro, mercati meravigliosi, acquisto altre douna, stoffa per mamma color smeraldo, immagini sacre e cavigliere in argento, orecchini e molto altro ancora… Al ritorno ci attende una gustosa lentil soup, palak paneer, cheese naan chapati, dil fry… Il muslim chief dell’albergo ci presenta una coppia di ragazzi italiani, simpatici, in giro per l’Asia da un mese è destinati a giungere in Australia entro i successivi sei mesi, passando per Nepal, Bangladesh, Cina, Birmania, Thailandia, Malesia, Indonesia e giungere poi alla metà… Davvero coraggiosi. Un po’ di invidia per loro… Sistemiamo i conti con l’albergo, ringraziamo l’ospitalità e la splendida Jaipur color pesca. Osserviamo attentamente dal balcone le ultime immagini di quel simpatico sito, un albergo stretto ed alto, curato, che sul retro Si adagia su un cortile sterrato in cui svetta un enorme banian di trenta metri, che procura sollievo ad anziani e mucche, nonché cani randagi… Sei davvero la degna capitale del Rajasthan!

28 agosto

Risveglio ore 5.00, tuc tuc prenotato dopo mezz’ora, che però non si presenta all’appuntamento… Ansia da ritardo, raccolti fortunosamente da un altro mezzo che ci porta in stazione. Treno prenotato per N.D. partenza ore 6.00 in punto! Il ritardo risulta essere un problema… Treno si schioda puntualissimo dalla banchina. Posti ovviamente prenotati, di fronte a noi siede una simpatica coppia di anziani indù, lei in shaari rosso, elegantissima, lui in abito semi occidentale, tenerissimi… Molte ore ci separano dalla stazione di Nizamuddin, a N.D., e il risveglio tempestivo non ci ha permesso di acquistare cibi… Solo qualche goccia d’acqua e qualche arachide… L’antibiotico preso qualche ora prima andrebbe accompagnato da qualche cibaria per evitarmi un’ulcera perforante allo stomaco… I gentili signori, poliglotti, capiscono il mio problema e offrono, dal loro ricco cestino pic-nic, un provvidenziale toast al peperone, dei dolcetti che usansi fare durante le festività e che rispondono al nome di Krishna Body, fatti di cocco e zucchero! Squisiti!!! Pennichella a -3 gradi e improvvisa inchiodata del treno. Siamo arrivati a destinazione circa due ore e mezza prima del previsto (orario scritto sul biglietto)… Scendiamo ancora intorpiditi dal sonno e l’impatto con Delhi è davvero forte. Il caldo atroce e il caos cittadino fanno di questa città un vero macello… Mai nella vita ricordo di aver visto cotanta improvvisazione, caos e insidie, ma che per nulla ostacolano il fluido scorrere di traffico, mercanteggiamenti, soste e quant’altro una persona possa vedere coi propri occhi… Mentre un risciò ci porta di nuovo a Parganji alla ricerca di un hotel, osservo incredulo un venditore che trasporta nel retro della sua bicicletta un cubo di 50×50 di ghiaccio che si scioglie direttamente a contatto con il metallo della bici, legato con una fetida corda, che consegna ad un chiosco di frutta l’importante componente per i frappè al tetano, bilarzia e salmonellosi… i risciò scorrazzano a metà tariffa dei tuc tuc, questi poveri uomini cavallo, faticano come mai noi abbiam provato in vita nostra… Cerchi di portar loro pecunia facendoli lavorare, ma quando ti ci trovi sopra, in due, con relativi bagagli per un totale di 200 kg, ti accorgi che non c’è’ davvero fine allo sfruttamento… Al che cerci di dar loro il triplo di quanto chiesto… Mi dispiace davvero tanto… Siamo combattuti… Per strada si può notare che cibo ed animali sono sullo stesso piano, una mucca si ciba dallo stesso sacco in cui una signora estrae la farina per fare del chapati, mentre un cane sonnecchia sopra ad un sacco di colorata pasta… Giornata solo dedicata agli acquisti, prendo molti anelli in ferro, orecchini ed una splendida ciotola intarsiata in legno scuro…l’albergo è un poco claustrofobico, zozzo ma economico… Risponde all’ironico nome di ‘Paradise’, che coraggio… A me ricorda un film girato a Gaza che si intitola proprio così: Paradise… La nausea da acquisti è sopraggiunta, ci viene davvero un travaso di bile a furia di vedere sempre le stesse cose, e quanto ci rimane, tolto qualche soldino per la cena e il taxi, viene distribuito ai poveri della via… Probabilmente non sarà la scelta più matura che si possa fare, ma sfido chiunque a resistere a quello che la città ti propone… La stessa povertà in zone rurali non la si percepisce così, forse le micro comunità sono più coese tra loro, o forse il racket dell’accattonaggio non è così radicato come nei grandi e popolosi quartieri, soprattutto se frequentati da turisti… Cenetta al Nirvana, dove io gusto dei noodle, e Sesil dell’indian tulsi, al secondo piano di questo music bar dove strimpellano due ragazzi, un afro inglese ed un abissino con chitarra e bongo, canzoni di Marley, U2, Dire Straits… bravissimi. L’ultimo ricordo di questa città lo vorrei legare a questa passeggiata vespertina tra le vie quasi deserte del quartiere, dove dopo essermi acquistato un piccolo orecchino da naso, vengo rapito (Sesil è distratta da non so cosa) dal suono ritmico di una moltitudine di campanelle che fuoriescono da un piccolo antro incastrato tra i negozi. Qui scorgo un giovane ragazzo in abiti arancioni, che maneggia una lampada ad olio multi braccia e fa roteare con la destra un simil sistro… Un sacerdote di Shiva, sorridente, di una bellezza che solitamente si vede solo nello nel film bollywoodiani.  Al rientro in albergo, ci viene chiesta una tariffa superiore a quanto concordato il giorno prima… La notte è trascorsa tra latrati sopraggiunti dall’esterno e scatarramenti che sopraggiungono dalla camera di fianco… Un taxista un poco allampanato ci carica nel piccolo piazzale adeso alla stamberga per poi scorrazzare per l’assonnata Delhi. Ai semafori colleghi taxisti cercano di intavolare discorsi con il nostro conducente, ridacchiano su di noi, pazienza, risultiamo davvero buffi ai loro occhi… Sorridiamo al mondo… Via verso L’aeroporto di New Delhi, meravigliosa costruzione dedicata ad Indhira Gandhi, con lussureggianti palme, mastodontici elefanti dorati e luccicante marmo bianco ovunque… Beviamo una caffè al Costa bar, ci si sveglia così dopo il sorgere del sole…

29 agosto – Helsinki

Scruto il display dell’aereo che sorvola il Pakistan, Kabul, Tashkent, Kazan e Penza… Pranzetto al chili piccantissimo, il jet leg non da tregue; guardo il cartoon Rio, simpatici psittacidi che ne combinano di peste e corna, per poi di nuovo lanciarmi su un film ‘cosa succede a Las Vegas’ con la Diaz e Kitchner, una vera pioggia monsonica di risate. Non dormo. Continuo a non dormire. Uff… L’ultima parte del volo risulta essere davvero divertente. Io e Sesil ci sfidiamo ad un game tipo Mario Bros, dove l’operazione da eseguire consiste nel dar la caccia a tassi, marmotte e castori… Manca poco che non mi faccio la pipi addosso dalle risate… Diamo il peggio di noi!

Helsinki è davvero una bella città, pulita, ordinata, curata. Ogni cosa è al suo posto, come se c’è l’avesse messa Dio! Piove molto e l’idea di non imbarcare quello che spaccio per bagaglio a mano (almeno 13 kg di oggetti fragili) non risulta essere una genialata… Portarseli seco è scomodo, mi fan male le mani e ad ogni metro mi devo fermare per sistemare i miei polpastrelli recisi dai manici di yuta. In città si vede una persona ogni mezz’ora, lo shock visivo soprattutto confrontando con la precedente esperienza indiana è forte; li non sei solo nemmeno in bagno, ovunque c’è gente, movimento e possibili ed eventuali contrattempi. Ad Helsinki sembra esser esplosa la bomba nucleare qualche giorno prima… Ha tutta l’aria di essere una capitale, con i suoi palazzi russo-barocchi, le chiese ortodosse e i campanili dorati in stile bizantino. Dopo l’India, qui, persino un cesto dell’immondizia ci sembra un’aiuola fiorita… Incredibile! Con una pioggia tipo Udaipur ed un vento che ti fende la faccia come un colpo di scimitarra, non ci lasciamo intimorire. Roba da femminucce, se rapportata al Rajasthan! Quella terra è entrata dentro di mio, e come una tigre spesso si fa sentire. Ho già voglia di ritornare, anche se qualche ora fa desideravo la mia casa, i miei mici, gli amici e la routine quotidiana… Suzanne e il compagno Luca ci recuperano dopo il lavoro. Caricati in auto andiamo a cena al ristorante Tori, che in finnico significa ‘piazza’. Cenetta con polpette di patate rosse, pure speziato e salsa allo yogurt, ottima, finalmente cibo non ultra piccante… Chiacchieriamo un po’, loro sono gentili e simpatici, Suzanne è deliziosa, piccola e bionda come una fatina. Luca molto mediterraneo, che ha dato una svolta alla sua vita trasferendosi in Finlandia per amore e per opportunità lavorative. Bravi ragazzi.

Il resto è ritorno, minuti che ci separano da quel gesto tanto usuale e meccanico, quello in cui le chiavi che avevi dimenticato nella tasca superiore dello zaino vengono estratte, osservate ed infilate nella serratura. La vacanza è terminata, ma i ricordi continueranno a vivere dentro di me, dentro di noi. Grazie a tutti colori che ci hanno aiutati, anche nell’accudimento degli animali a casa, lasciandoci tranquilli, alle persone che abbiamo incontrato, e a quelle a cui abbiamo lasciato un semplice ricordo… Grazie Sesil. Grazie Gandhi. Grazie India.

 

Moyseion

Graphic Designer/Publisher

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