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Eritrea

Eritrea

Italia d'Africa

Departure-icon 09/08/2010 - Arrive-icon 19/08/2010 2

La meta prescelta sarà un paese che si adagia sul Mar Rosso, ma non il solito villaggio iper affollato tipo Sharm El Sheik o Marsa Alam, bensì l’Eritrea. Di questo paese ne ho sempre sentito parlare sui libri di scuola e ricordo, quando leggendo un libro sul colonialismo italiano, rimasi affascinato da quelle foto in bianco e nero che ritraevano visi sorridenti in posa di fronte a costruzioni tipo ospedali, edifici scolastici e bar all’italiana. La nostra amica Barbara c’è stata qualche anno fa ospite di un suo amico biologo e i suoi racconti sono stati il colpo finale inferto alla debole indecisione. Dunque, premessa. Trattandosi di Africa tropicale, nel pieno della stagione delle piogge, la partenza è stata preceduta da vaccini antimalarici, che presi (mea culpa) troppo alla leggera, (male interpretando il bugiardino), ho somministrato a me stesso e a Raf il sovradosaggio da partenza immediata, anziché la normale profilassi preventiva. Bene, al terzo giorno consecutivo di ingestione Lariam, la notte, dopo incubi indescrivibili, sbalzi termici che andavano da assideramento a combustine, ci siam trovati in boxer a correre sul balcone urlando “… C’è un temporale, mettiamo in salvo le tartarughe e i gatti…” sbattendo le persiane e fissandoci le reciproche orbite rosso Hannibal Lecter… Ecco, episodio intossicazione a parte, inizia la vacanza. Si parte alle ventitré diretti al Cairo, dopo una pizza con Nilde. I voli per il medio oriente sono spesso sfigati, in quanto partono ad orari assurdi, ed arrivano poco prima che chiuda l’aeroporto. Insomma, all’alba siamo nella capitale egiziana, dove andiamo a far visita a Seham, la mia cara insegnante di arabo, che trascorre l’estate racchiusa in un dorato quartiere chiamato Rehab, un compound alle porte della città. Ci viene a prendere alla fermata del taxi, gentilissima ci prepara un caffè e ci sistema in una camera dove poterci riposare un’oretta. Al risveglio dopo aver chiacchierato un po’, il desiderio di far tappa nel cuore della città prende il sopravvento. Bus linea Rehab line verso la stazione di Roxy, in piena periferia cairota, dove il deserto orientale lambisce i primi quartieri della cerchia esterna. La stazione sembra esser stata presa d’assalto da colpi di miliziani janjayyd tanto è sconnessa e disordinata, sembra essa stessa la città di cui fa parte, è caotica, polimorfica, tortuosa, incerta, opaca, ambivalente. È come tutto dev’essere in Egitto, eteroclita. La direzione è quella meridionale di Mar Ghirghis. Nel quartiere copto si va alla Muallaka (per preghiera nel centro della spiritualità indigena) e voto all’altare del santo, per mio padre. Al solito angolo dopo la barriera della polizia, che scherza coi fucili come se fossero spade di legno, l’immancabile acquisto di ciotole in terracotta ed un piccolo vaso, mi donano la stessa euforica eccitazione che normalmente si dovrebbe provare ai saldi sulla Fifth Av. Diretti con la metro verso il centro cittadino, scesi a Mubarak, come da decenni sembra non essere cambiato nulla. Il solito Mogamma alle spalle, che ospita 20.000 dipendenti, è il simbolo del paradossale, cervellotico e monolitico apparato burocratico no-sense. Di fronte al Museo Egizio, il solito piazzale invaso da ruspe, dimostra che nulla cambierà. Mai. Verso Kasr El Nil, un gigantesco gonfalone prepara l’avvento di una decennale ‘dittatura’ mascherata da democratiche elezioni, quelle che vedono candidato il figlio del presidente, Ghamal… Due passi verso Talat’Harb per il consueto caffè da Groppi, che ci regala il comico siparietto di vedere un vigile di bianco vestito che cerca (totalmente invisibile alla massa) di dirigere un traffico che è simile solo alle fughe dei film catastrofici americani. Si punta verso Sabri Abou Alam, Talaat Harb Square, nella stessa via in cui l’anno prima alloggiavamo al Meramees Hotel, nei pressi di un negozio di antiquariato. Lì, una sera, l’ultima per la precisione, mentre ci trovavamo a passeggiare con Giampy e Marcello, ci siamo soffermati appunto in questi polveroso negozio. Sporgevano da una parete dei portasaponi laminati anni ’50, semi arrugginiti ma ricchi di fascino. Purtroppo per me, avevo finito i soldi e nessuno dei miei compagni, Pinna in primis mi ha voluto prestar pecunia per un oggetto del genere. La cosa strana (anzi no, e chiediamoci il perché…) l’oggetto era ancora nel suo identico posto, e l’anziano signore simile al romanziere Nagib Manfhuz, mi ha riconosciuto e salutato come se non fosse passato nemmeno un giorno… L’ho acquistato immediatamente. Tappa a Bab Zweyla, e ritorno a Rehab nel tardo pomeriggio. Lasciarsi il Cairo alle spalle è come rivivere un parto da adulti, e il cui cordone ombelicale è lo strascico di città che porti con te, fin sotto alla doccia. Da Seham si chiacchiererà piacevolmente nel suo ombreggiato giardino ricco di poltrone in midollino di palma, aspettando la sera, dove la muddarrisa (maestra in arabo) per l’occasione, ci aveva promesso una cenetta in un locale del compound moderno ma con cucina tradizionale iper curata, sotto ad un tendone circondato da fontane, una sorta di villaggio turistico per egiziani. Beh, se devo dire la verità, cibarsi insieme ad una persona che conosce la cucina locale, è il massimo. Piatti scelti, abbinamenti fantastici e dosi giuste. Un gourmet faraonico. Verso le undici, un taxi chiamato per l’occasione ci porterà all’aeroporto per la trasferta verso l’Asmara. Dopo un’ora lasciamo l’asfissiante calura augustina egizia, con un volo Egypt Air che ci consegna a destinazione alle ore tre del mattino, del giorno 10 agosto.

Lo sbarco avviene in un clima di monacale ordine, saremmo si e no in venti persone, la sala controllo passaporti è così disposta: venti metri quadrati di desolante arredo anni ’60 simil-ospedaliero, un piccolo bagno senza la porta principale e adeso ad esso, due desk per il rilascio visto d’ingresso. E proprio mentre ci trovavamo in fila, un lancinante dolore mi ha fatto presagire il peggio, la maledizione di Tutankamon ha deciso di seguirmi, come un souvenir, nel cuore dell’Africa. Senza troppo attendere mi precipito in bagno, chiudo la porta di fronte ad un bimbo di circa 6 anni che basito, si lava le mani… Inutile dire che una volta uscito, gli occhi sgranati del bimbo (che stava ancora insistendo nell’operazione di lavaggio mani, forse sotto shock…) valevano più di ogni parola… Per non parlare poi dei commenti di Pinna e della polizia eritrea… Che vergogna! Qualche saluto in italiano, sorrisi a tentaduedenticandidieperfetti e via per l’ufficio cambiavalute, un furto legalizzato. La valuta straniera la si cambia solo presso gli aeroporti, il centralissimo ufficio cambi di Himbol, e da nessun’altra parte! La valuta, il nakfa viene scambiato sottraendo al normale cambio, il 60% del reale valore, per cui, l’impressione generale è che tutto costi troppo… È notte, sono circa le tre e mezza, all’uscita dall’aeroporto (che sembra un hangar per deltaplani), una fitta nebbia ci si scaglia davanti come un muro novembrino della nostra Lodi. Parliamo anche della temperatura, forse non più di 10 gradi. Insomma fa freddo. Ci vengono incontro un paio di taxisti, di cui notiamo solo le orbite degli occhi. Una volta saliti sulla vettura, ci dirigiamo nel cuore della città, verso l’Africa Pension, una splendida villa italiana, con terrazze e giardini, che ahimè il custode dice di essere ‘fetzum’, pieno.

Peccato, sarebbe stata davvero un’ottima sistemazione. Il secondo albergo consigliatoci è il Karthoum Hotel, una sorta di ex-cinema anni ’60 al cui interno, mobili in zebrano e moquette ci portano indietro nel tempo. Per una strana norma vigente in Eritrea, due ragazzi non possono dormire nella stessa camera, per cui ci vengono attribuite due camere vicine, pazienza, sopravvivremo. L’indomani il risveglio avviene tra lo sconcerto e lo sconforto. La nebbia copre completamente la città donandole un aspetto invernale. La temperatura non è per nulla accogliente e non resta che uscire a cercare un altro albergo. Girando lungo la via principale, ci fermiamo in un bar dall’aspetto tipicamente italiano, da Rosina, dove bellissime ragazze servono sorridenti cappuccini e brioches. Saluto dicendo ‘amanisegallo’ credendolo un saluto eritreo, ma una ragazza mi fa notare che è etiope. La stessa, ci dice che non è stano vedere passeggiare il loro presidente Afewerki (ex eroe nazionale dell’indipendenza, divenuto un ottuso dittatore) da solo mentre da casa sua, si dirige negli uffici presidenziali, dove un tempo risiedeva il Governatorato italiano. Siamo in Harnet Avenue (ex via Mussolini) una splendida via di quelle che si potrebbero trovare nella riviera ligure, costellata di palme rigogliose, il cinema Impero in tutta la sua maestosa presenza ricorda tempi che furono, di fronte al cubista Palazzo di Giustizia in color verde e ocra. Troviamo il Pisa Pension, un albergo situato proprio di fronte alla cattedrale cattolica, la cui struttura è identica alla chiesa che per anni ho visto dalla finestra della mia cameretta a Borgo, nella stessa posizione. Mi sembra di fare un tuffo nel passato, tornando bambino. Anche qui la solita bizzarra normativa che ci impone di prendere due camere separate, a me tocca una sorta di quadrato con finestrella oscurata, il cui letto matrimoniale sembra essere perfettamente incastrato a tetris all’interno del perimetro della stessa, staccato dalle pareti di pochi centimetri. Sistematici alla bene meglio, riponiamo gli zaini e siam pronti per la prima vera passeggiata nella capitale. La nebbia nel frattempo ha lasciato spazio a un tempo parecchio uggioso e freddo. La prima tappa è all’Ufficio del Turismo, per richiedere il visto per lasciare la città. L’ufficio è arredato in maniera spartana, alla parete sinistra penzola una sorta di sega ossea che ci dicono essere lo sperone di un pesce marino tipico del Mar Rosso. L’addetto ci informa che al momento siamo in 18 turisti stranieri in tutta l’Eritrea e la cosa ci lascia parecchio di stucco. Nell’ufficio ci viene richiesta la fotocopia del passaporto, ma in quel luogo non c’è una fotocopiatrice, per cui ciò ci costringe ad uscire alla ricerca di una copisteria, per fortuna non molto distante. I visti ci verranno rilasciati antro la mattina del giorno seguente. Uscendo ci soffermiamo incantati ad osservare un camion della nettezza urbana, simile a quelli che vediamo quotidianamente in Italia, su cui uomini e donne, sezionano minuziosamente il carico, per separare la carta e la plastica dai metalli. In un paese così povero fa impressione vedere con quanta cura questo popolo risparmia al territorio tonnellate di immondizia, cercando di riciclare il più possibile. La prima tappa in Eritrea consiste nell’attraversare la città in direzione periferica, verso nord-est, per visitare il mercato di Medbar, una sorta di ex fabbrica stile metallurgico, di cui restano soltanto le tetre mura in mattoni rossi in stile lager, dove al suo interno, un’infinità di fucine artigianali creano, maneggiano e amalgamano ogni sorta di materiale in disuso, secondo il principio eraclitiano che ‘Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma’. Barbara, parlandoci di Asmara aveva speso non poche parole a riguardo di questo infernale angolo di periferia, e dai suoi racconti eran partite moltissime idee, una delle quali era appunto quella di portarmi un moke up in cartone di una tubatura per il mio lavandino esterno. Detto fatto, trovato un artigiano esperto di zincature, ho lasciato una manciata di nakfa di caparra e concordato il ritiro, cinque giorni esatti da quel momento (lo si sapeva in anticipo, il visto per assentarci dall’Asmara era di soli cinque giorni). Yekanielei (grazie)! Passeggiando per il mercato abbiamo visto, tra le vie fangose, incisori di lapidi funebri, tessitori di sedie con fili elettrici, calzaturifici di copertoni, intarsiatori di legni, vasche coi piedi di leone, tende in PVC prodotte da gonfaloni pubblicitari e quanto di più originale e bizzarro si possa trovare… Per uno come me, un vero paradiso. Rientriamo in città, un’anziana signora, con un’enorme foglia di palma pulisce centimetro per centimetro con cistercense precisione, un angolo di strada. Si passa attraverso il mercato coperto, dove piccoli altarini in vetro con santi locali e diciture in tigrino, si illuminano sotto una fioca luce di lampadine a un watt, e un acre profumo di peperoncino. Sono circa le due del pomeriggio, un po’ di appetito ci porta a visitare la tanto decantata Casa degli Italiani, un ex villa con giardino in parte piastrellato, che accoglie gli ultimi nostalgici della colonia italiana in quell’angolo d’Africa. Signori in bizzarri smoking démodé, con bastone e coppola, personale che parla italiano addirittura con cadenza dialettale toscana, il proprietario, che millanta trent’anni di servizio presso la famiglia Agnelli a Torino, e persino una copia slim dell’edizione ciclostilata della Repubblica giunta alle prima ore della magnana in formato PDF e stampata come se si trattasse di un bollettino dei moti carbonari… Tutto così vintage e congelato nel tempo, adoriamo da subito questo spazio, vediamo i nostri nonni passeggiare li dentro, c’è lì immaginiamo, come se noi stessi non avessimo mai lasciato quell’epoca, insieme a loro. Un pranzo squisito, io una caprese e Pinna spaghetti al pomodoro, come se ci trovassimo sulla costiera amalfitana. Ottima cucina. All’uscita i ragazzini ci rincorrono per ottenere qualcosa per cui spesso veniamo tacciati di errore e malcostume, ovvero qualche monetina. Come riuscire a negare a questi poveri bimbetti (hatzaa), spesso orfani di quella terribile guerra tra Etiopia ed Eritrea che tutt’ora costringe i giovani ad arruolamenti forzati della durata di quattro o cinque anni? Il clima ultra umido e la pioggia costante, nel frattempo hanno fatto di me una sorta di mocho crespo, non capisco perché mi muovo come se fossi allampanato, ubriaco di qualcosa che non avevo bevuto. Asmara, città scelta come capitale della prima Colonia italiana, deve il suo nome a ‘quattro villaggi’ che sorgevano vicini, su un terrazzamento montuoso a circa duemila metri di altitudine ‘Harbaete Asmera’  divenuto poi semplicemente Asmara. È per questo motivo che mi sento la testa ciondolare come una maracas… E proprio perché il senno ero ormai compromesso, insieme alla capigliatura, passando davanti ad un parrucchiere, ho preso l’ardua decisione di trasformare la mia testa in un cesto intrecciato di crine. Un’esperta ragazza ci accoglie dicendo ‘hareire’ che significa qualcosa tipo acconciare. Armata di un ferro atto a quel compito, mi ha passato a tricot la testa, creando una decina di file che correvano dalla parte anteriore del viso, sino alla nuca. Pinna conversava in italiano con il proprietario, malato di malaria che cercava pezzi di ricambio della sua vettura incidentata. Dopo un’ora circa usciamo, la mia espressione ricorda vagamente quella di una politica italiana asservita al botulinismo feroce, le trecce tirano le estremità degli occhi e delle tempie, dandomi quell’aria un po’ babba (il proprietario del negozio mi ha detto che dopo un po’ si sarebbero allentate). Sbuca un raggio di sole, ci troviamo di fronte al chiostro posto a destra della chiesa cattolica, dove incontriamo Dea, una signora italo eritrea di una magnetica simpatia, al cui orecchio, nella parte superiore, luccica un ‘sukren’, un tipico orecchino a mezzaluna che avvolge il padiglione superiore e che diverrà la mia ossessione. Rientrati al P.P., pensiamo ad una doccia, che assurdamente elargisce pochissima acqua fredda (in un paese dove piove più che a Lodi a novembre). Impossibile resistere senza congelare, ci asciughiamo in fretta e furia con felpina e sciarpa usciamo per Harnet Av., che verso sera si riempie di una folla gioiosa di giovani che passeggiano, sostano ai caffè, chiacchierano e simpaticamente vivono la loro bella città. Quando due ragazzi si incontrano, (spesso succede anche tra ragazze), il saluto consiste in un gesto curioso, che affonda le sue radici all’epoca della guerra, quando si girava coi fucili in spalla. Si prendono la mano destra, la stringono mantenendola all’altezza dell’addome e per tre volte si toccano spalla spalla. Per cena Pinna vuole andare a mangiare injera, la spugnosa piadina locale, miscuglio di farine differenti che funge da letto per saporitissime passate di verdure, rattatuille e couscous (che è in assoluto il mio piatto preferito). Il ristorante si chiama Milano. Raccontiamo ai proprietari che solitamente, quando siamo a Milano, ceniamo al ristorante Asmara, e proprio in quel luogo abbiamo deciso che l’Eritrea sarebbe stata la nostra prossima tappa. Sorridono compiaciuti e noi pure, dopo aver deliziato quella prelibatezza. Nanna e buona notte – deaan hideru! Sveglia all’alba, zaini pronti e giù per le scale a ‘S’ del P.P diretti all’Ufficio del Turismo, dove ritiriamo i visti. Whow!

Da li, qualche centinaio di metri su a destra dopo il mercato coperto, vicino alla pompa di benzina, si trova la piazzola di sosta dei bus per Massawa. Oggi è una giornata stranamente soleggiata, ci asciuga abiti e ossa, un leggero piacere simile a quello che potrebbero provare le lucertole a marzo. Giunti alla fermata ci accorgiamo che davanti a noi, circa una trentina di persone attendono con borsoni e bagagli, l’arrivo del bus. Siamo contenti perché da come preventivamente raccontatoci all’U.d.T., i bus possono contenere circa 40 persone. Ma una cosa non torna, anzi rende il tutto vagamente burlesco, ovvero, che ad ogni millesimale spostamento della fila, molti di essi, spostano coi piedi, tappi di bottiglia, lattine, oggetti in plastica apparentemente insignificanti. Ma ciò nascondeva un’anima ben più viva di quello che credevamo fosse un rito propiziatorio, gettandoci nello sconforto. Ognuno di quegli oggetti rappresentava una persona che si era assentata o che stava per arrivare… Ciò trasformava quella spuria fila, in un consistente reggimento in stagnante attesa! Nooo! In quel frangente abbiamo conosciuto Elisa e Tommaso, due ragazzi italiani in trasferta per un progetto di cooperazione internazionale, presso i comboniani. Con loro stringiamo una solidale amicizia e conveniamo che di quei passi, avremmo lasciato Asmara verso sera. Per cui, trovato un taxi è contrattato il prezzo siamo saliti per dirigerci ad un checkpoint. Ma una volta lasciata la città, oltre la cortina di cactus che cingono come un muraglione la periferia, un soldato ci ha fermati, e ci ha rimbalzati senza incontrare nessuna resistenza da parte del taxista (che probabilmente già sapeva cosa sarebbe accaduto…) perché sui nostri visti ovviamente non c’era in numero di targa del taxi. Grrrrr… Ritornami con la coda tra le gambe e le orecchie basse all’Ufficio del Turismo, dove con diplomatica eloquenza, ci dicono che aggiungere la targa del taxi avrebbe spostato la nostra dipartita di un giorno… Ma tutti noi dovevamo partire subito, altrimenti avremmo compromesso il giro stabilito. A Tommy, dotato di cellulare eritreo dono di un frate, viene l’idea di contattare il suo méntore, che in men che non di dica, ci attende alla fermata del bus. Da li a pochi minuti sarebbe arrivato il bus (l’unico probabilmente della giornata, il modo per il regime di controllare gli spostamenti attraverso lo scoraggiamento). Con una mossa non ben chiara, probabilmente allungando vergognosamente qualche banconota o promesse d’indulgenza, il frate è riuscito ad infilarci sul bus, al posto di altre quattro persone che dicono di poter partire il giorno seguente. Si sale, incastrati a puzzle su uno sferragliante quattro ruote arrugginito, tra bellissime donne di cui osservo ossessivamente il sukren (molte anche nel naso) e i coloratissimi vestiti sormontati dalle grezze foutas con croci copte ricamate. La discesa verso Massawa ci mostra in tutta la sua vertiginosa inclinazione, quanto fossimo in alto. Una fitta vegetazione di fichi d’India, costeggia, insieme ai serpenteschi binari del treno (dicono essere il più bello ed ingegnoso tracciato ferroviario del mondo…) il panorama, rendendo il tutto simile ad un luna park progettato per divertire dei bimbi, ancora perfettamente funzionanti e miracolosamente risparmiati dal tempo e dalle guerre (come del resto tutti gli edifici finora visti). Alberi di neem, da cui si produce un famoso olio, babbuini e asinelli. Giungiamo a Nefasit dopo circa un’ora e la cittadina è avvolta da una fitta e pungete nebbia. Lungo la strada, file di ragazzini con cesti pieni di fichi d’India, gridano ‘balaas’ richiamando l’attenzione dei passanti. Lasciamo la chiesa (uember) sulla destra e qualche piccola abitazione per proseguire verso la costa. Gli edifici religiosi, per quanto caratteristici, hanno sempre l’impressione di essere incompleti, i giochi di colore dati dai mattoni crudi che incontrano le pareti stuccate e colorate, conferiscono all’edificio un un’aria ibrida, perennemente giovane e in costante mutamento. Lasciata Nefasit, le pendici montuose si trasformano in qualcosa di più brullo dalle tinte color ocra. Prossima tappa Ghinda, un avamposto nel nulla, dove un piazzale sterrato con qualche bancarella alimentare ci accoglie per una sosta di circa trenta minuti. Scesi dal pullman, con le ossa un poco lussate, dei ragazzini ci rincorrono per ottenere qualcosa da mostrare poi con orgoglio ad amici e genitori. Preparati in anticipo a queste situazioni, ai bimbi vengono regalate penne, bracciali in silicone, occhiali da sole, cappellini e quaderni in carta riciclata che avevamo preparato a casa. Strafelici i bimbetti, corrono come schegge impazzite. Immortalo Pinna in alcune foto che gli donano un’aria degna di Pietralcina. Ora non resta che scegliere uno dei ‘baretti’ che costeggiano l’immenso piazzale. Trovato un piccolo locale con terrazzino, seduti sulle sedie esterne ci viene servita una fanta, una cola acqua e caffè. Elisa deve assolutamente andare in bagno, che per le donne spesso coincide in un triste momento di sconforto visivo ed olfattivo. Anche Pinna decide di andarci. Dopo circa dieci minuti li vediamo rientrare, il volto di Elisa pare congelato, passivamente sopraffatto da quella necessità incombente. Pinna si siede, accenna ad un sorriso demoniaco, accavalla la gamba e dice ‘… No vabbè, non ho parole… ‘. È il mio turno, e con una punta di curiosità mi dirigo verso l’ingresso, scavalcando letteralmente il bancone (i locali di servizio sono per i gestori – i clienti utilizzano i cespugli della brughiera) per trovarmi di fronte ad una piccola sporgenza rocciosa che dava su un dirupo profondo circa cinque metri che funge da cloaca, in cui c’era di tutto. Cadere li dentro, (cosa molto probabile se non si presta attenzione) coinciderebbe con un ignobile fine… Proseguendo verso destra per due metri circa, una piccola nicchia scavata nella roccia, cela, dietro una porta in metallo, il suo infernale segreto. Citofono ‘Caronte’ si entra, in un pertugio alto poco più di un metro e cinquanta, buio, che termina, dulcis in fundo, con una turca della stessa nuance della roccia scura. Potersi rilassare mentre si compie il rituale, sembra impossibile. Una mano deve per forza restare attaccata al soffitto se non si vuole scivolare sul barcone del signor traghettatore degli inferi… Stesso percorso a ritroso ci si racconta l’accaduto sorridendo shoccati. Il caldo, ora che ci troviamo sul bassopiano si fa sentire, siamo passati dai dieci gradi di Asmara, agli almeno trentacinque di Ghinda. Il bus riprende il suo sferragliante giro nella brulla landa color del miele. Qua e la qualche edificio di retaggio coloniale, mostra la cura estetica italica in quasi tutti i suoi edifici, come delle fonti termali, qualche cisterna e parecchio più ad est, il ponte di Dogali, in stile littorio-futurista, su cui si può leggere: Ponte di Dogali – Generale Menabrea, e nell’architrave centrale, in dialetto piepadano ‘CA COSTA LAN CA COSTA’. Il paesaggio muta di metro in metro, quello che all’inizio era un fresco habitat verde e argilloso, ora è diventato qualcos’altro, roccioso, polveroso e ocraceo, arso dal sole. Anche la lingua, più simile all’arabo che al tigrino, confluisce al tutto un’aria più esotica. Dopo circa quattro ore giungiamo a Massawa, io sono felicissimo, da quando son piccolo immagino questa città lagunare come una perla galleggiante in un mare dipinto. Il mio amore per le città portuali e la sua natura insulare, fanno di questa città un rifugio inviolabile e sicuro per la mia fantasia. Sui libri di storia, attraverso le immobili foto d’epoca, immaginavo un formicaio in costante movimento dove l’Europa incrociava l’Africa nera, e sognavo di trovarmici li, nel porto, tra edifici arabeggianti bianchi e blu, con le finestre ad ogiva ed il forte profumo dell’incenso. Di fronte alla costa si trova, poche miglia più in la, lo Yemen. Un parcheggio sterrato, il rottame di un aereo e almeno sessanta gradi ci accolgono sulla terraferma. Massawa è collegata alla costa da una lingua asfaltata lungo cui corre anche la ferrovia. La prima isola che si incontra è Taulud, la seconda è Mitsiwa. Il sole cuoce, ti sentì friggere la testa e non v’è riparo che tenga. Un taxi ci porta al Central Hotel, una struttura decente, con un enorme parcheggio vuoto e delle depandance in cui non facciamo fatica a trovar posto. Qui, chiudendo non uno, ma bensì due occhi, riusciamo ad avere un’unica camera, e ciò sembra già parecchio più umano. Da subito, appena giunti in città ci si accorge del gracchiare dei corvi, sono in milioni, miliardi, e ci raccontano che si sono stabiliti qui durante la guerra, per l’elevato numero di morti. Sono animali furbi e se affamati risultano essere una scocciatura. Sono ovunque, sui tetti, nel dehors dell’albergo che si getta sul mare e nonostante il colore del loro piumaggio, resistono assiduamente all’elevata temperatura. Prima cosa telefono a casa, voglio sapere come stanno babbo e mamma. Tutto ok, array! Insieme ad Elisa e Tommaso, passeggiamo per la città. Sembra deserta e purtroppo i segni della guerra sono più che evidenti; edifici sventrati dall’aria dismessa, biblioteca distrutta, ospedale divelto, come del resto tutti gli edifici che hanno reso celebre questa città. Il colore della nostra pelle è impressionante, tra il rosso porpora e il color tamarindo, con un livello di sudorazione e disidratazione che ci costringe a bere continuamente. La prima visita la si compie nell’ex-palazzo imperiale di Haile Selassie, ridotto ad un cumulo di macerie, dove magnifici portali in legno penzolano dai piani sopraelevati. Un’enorme testa di leone giace ai piedi di quello che fu lo scalone d’ingresso. Che tristezza, quanto deprimente orrore deve aver vissuto questa città e tutti suoi abitanti. Unico edificio ristrutturato in tutta l’area è il Palazzo presidenziale, color panna e pesca.

Passeggiando notiamo che oltre ai corvi e a qualche gatto, non vi è anima viva, tutto diroccato e solo qualche bimbo ci corre incontro per avere attenzioni e qualche piccolo oggetto.

Non facciamo mancare loro nulla, nel limite del possibile, sono meravigliosi, degli angioletti sorridenti in quella deprimente città fantasma. Mi fa male vederla così, sapevo che era stata martoriata, ma non immaginavo in questo modo, o almeno, credevo che un programma di recupero fosse stato attuato. Invece nulla. Unico edificio risplendente e scintillante sulla baia, il Palazzo Presidenziale, di fronte all’ex Palazzo Imperiale. Povera Massawa! Il mare è proprio del colore della bandiera eritrea, altro che Mar Rosso, se si pensa poi che il termine Eritrea proviene da greco Erythreum, nome dato al mar Rosso per via del suo colore al crepuscolo. È sera, l’afa e le zanzare iniziano nervosamente ad insinuarsi nelle nostre provate esistenze. Dopo la doccia e l’ingestione del solito quantitativo di ledum palustre e Autan come se piovesse, ceniamo insieme lungo il mare, nel terrazzo dell’albergo. Ci servono fritto di pesce e pasta ai frutti di mare, tutto davvero buono. Gli zampironi portati dall’Italia non riescono comunque ad allontanare le punture di zanzare con l’incubo della malaria, endemica da queste parti. Passeggiata nella città vecchia, dai colori tenui e spenti, miraggio ottocentesco di una città illuminata alla fioca luce delle torce. Una poesia. Negozi di alimentari semivuoti, qualche giovane prostituta simile a delle regine di Saba, si aggirano lungo la diga di Taulud per chiedere di esserci di compagnia. Nella torrida aria serale, solo il ronzio delle zanzare accompagna il cigolio delle ante mosse da un filo di vento. Nel porto soltanto una nave gigantesca, battente la bandiera della Korea del Nord (la dice lunga il sodalizio tra le due dittature). In una via molto scura, che di getta sulla banchina, vediamo correre uomini in divisa armati fino si denti, provenienti dalla nave. È notte, una temperatura che non è umanamente descrivibile nella stanza, solo un vetusto e roboante condizionatore esala aria fredda al suono di un idrovolante da rottamare. Verso le tre di notte, un corto circuito fa saltare la corrente elettrica prodotta del generatore e bastan pochi secondi per trasformare la camera in un forno. Nel frattempo, Pinna è corso all’esterno borbottando incomprensibili insulti contro quel clima tanto ostile. Grazie a Dio, il guasto rientra e si può tornare si dormire. È mattina, l’alba è velata da una patina di umidità così fitta da rendere il paesaggio irreale. Salto in banca per cambiare qualche nakfa e poi diretti all’imbarcadero per una giornata al mare. Una piccola barca ci carica per Green Island, una piccola isola con un fortilizio, due ombrelloni in paglia ed una grossa nave semiaffondata a qualche miglio di distanza. Scorte di acqua, viveri e dopo circa quindici minuti l’attracco. Il barcaiolo ci avvisa che il ritorno sarebbe avvenuto al tramonto, stesso posto. Come prima cosa seppelliamo le bottiglie d’acqua per mantenerle fresche, sistemiamo le borse e le salviette facendo attenzione ai miliardi di paguri che corrono in branco sulla spiaggia, e nel giro di pochi minuti siamo in acqua. A rive l’acqua è calda e per un po’, il divertimento maggiore sembra essere quello di cercare le correnti più fresche che passan di li… I corvi sulla spiaggia danno tormento agli nostri zaini in cui, oltre alle arance ci stanno anche i documenti, la cui paranoica idea di un furto da parte dagli uccellacci, mi crea così tanta ansia da uscire più volte per metterli in fuga, fino ad arrivare a seppellire pure le borse… Dipingo una cartolina sulla spiaggia, mentre seduto gambe conserte mi chino per intingere il pennello nell’acqua mi infilo un ramo di palma nell’occhio! Momenti di dolore e panico mentre penso a come in Eritrea qualsiasi richiesta di intervento sanitario possa cadere nel vuoto. Terrorizzato mi sdraio qualche minuto, appoggio dell’acqua fresca e dopo qualche minuto mi sento meglio. Rientro in acqua, dove Pinna, cercando di doppiare a piedi il capo dell’isola sembra voglia infliggersi una punizione simile alle processioni di battitori di cilicio. Con indescrivibile precisione sembra muoversi centrando in pieno le spine dei ricci di mare che tappezzano il fondale. Con il suo 43 di piedi ne calpesta in continuazione urlando paroloni degni di un camallo, fino ad arrivare all’ultimo trofeo, una spina di oltre venti centimetri che gli trapassa da parte a parte il piede… Urla come un’aquila ed io con lui. Non posso essergli di nessun aiuto, e come un piccolo Rambo, estrae l’intrusa spina con minuziosa e chirurgica precisione! Di nuovo sul bagnasciuga fabbrico con delle radici di mangrovia e un taglierino dei ferma capelli. Dopo ore ed ore in quel torrido isolotto, ormai compiamo gesto senza senso, come Tom Hanks in Cast Away. Tommaso ed Elisa restano sdraiati all’ombra, Pinna è in acqua, completamente vestito ed ustionato e non vuole risalire se non per saltare su una barca in direzione della costa. Io sono ormai al terzo lega capelli intarsiato. Intanto, i paguri, corrono da una parte all’altra del bagnasciuga, per sfuggire ai famelici corvi. Noto due cose che mi danno un piacere immenso: la prima (di natura salutistica) che il dolore che ho da diversi mesi, causato da una sacca liquida tra la congiunzione della spalla sinistra è completamento sparito, probabilmente evaporato dal caldo. La seconda (di natura estetica) che mi sono asciugato come se dal mio corpo fossero stati espulsi tutti i liquidi in eccesso… Alle diciotto circa arriva il ragazzo della barca, ci carica e chiede gentilmente (come se facessimo una cortesia a lui) di non sporgerci dalla barca perché verso sera, le acque si popolano di squali… In men che non si dica mi rannicchio in un angolo rivivendo traumi infantili grazie a Spielberg… Sulla costa giriamo verso il souk, impropriamente definito tale, perché non vi è nulla di nulla. Molti bimbi scorrazzano liberamente per il piazzale con i lampioni divelti, due passi ed una coca nel cortile del C.H. dove una decina di ragazze del personale ci sorridono e scambiano con noi qualche parola, mentre ci servono un aperò un po’ africano fatto di semi tostati e due bibite gelate. Regaliamo loro penne e bracciali rendendole felici. Care. Per cena la scelta si fa ardua. La L.P. Parla di Selim un noto ristorante di pesce un po’ spartano. Selim merita un racconto a sé. Decantato come un angolo tranquillo dove gustare buon pesce, Selim si affaccia su un cortile in terra battuta con un enorme albero che funge da riparo per il sole. Detto anche ‘cortile dei mille gatti’ presagiva già un scenario apocalittico per due gattari come noi. Infatti, giunti nel locale, una tettoia in lamiera con due ingressi, uno per il bar (un bancone diroccato) a destra con un enorme lavandino, ed uno per la cucina con congelatore per il pesce e nel retro un forno per cottura tandoori (400 gradi). Ci sediamo all’esterno, su un tavolo sghembo in fòrmica, quattro sedie sgangherate e di altezza diversa, tanto che io sono ad altezza giusta, mentre Pinna ha il mento sul tavolo, Elisa dondola su una sedia a tre gambe e mezza e Tommaso, già alto di suo, svetta mostrando le ginocchia… Almeno un centinaio di gatti tutt’intorno si contendono gli avanzi di un tavolo di torinesi, in loco per volontariato. La scelta del menu inizia con il pellegrinaggio, due alla volta verso il freezer a pozzo posto all’ingresso. Una volta aperto, abbiamo un mancamento. Un enorme cernia congelata ci fissa dall’interno di questo arrugginito elettrodomestico, privo di ghiaccio. Estratto il pesce siamo così storditi dalla situazione che annuiamo (avremmo annuito anche se si fosse trattato della testa di Maria Antonietta), la luce fioca dona alla situazione un qualcosa di vagamente hitchcockiano. Il pesce viene passato nel retro cucina, dove gli addetti alla preparazione iniziano a ripulirlo. Ci sediamo, in silenzio, congelati come quella cernia, occhi fissi, e su di noi i 400 occhi felini e quattro canini che ci scrutavano non disinteressatamente. Le posate, simili a zappe, sarebbero state meglio utilizzate in edilizia. Dopo circa dieci minuti in cui c’è la siamo risa sonoramente, imbeccati anche dagli italici compatrioti, giunge l’ittica prelibatezza. Una cosa è certa, nessun battere, stafilococco o virus potrebbe resistere ad una cottura tandoori, un tipico forno indo-africano che cuoce a fuoco altissimo su tutti i lati, in quanto il cibo viene calato dall’alto. Il pesce è invitante, ma a me sembra di fare un torto a quelle fameliche code. Per cui, a piccoli pezzi, lancio le parti meno piccanti (perché la cucina eritrea, se presa alla lettera potrebbe paralizzarti la bocca con il berberé) alle fiere, che povere, affamatissime, se lo litigano ferocemente. I gatti in maggioranza hanno la meglio, ma la cosa strana sono i latrati dei cani, che probabilmente crescendo insieme ai gatti, miagolano mostrando i denti. Una scena grottesca e al tempo stesso, assurda. La via del ritorno sembra essere più leggera, camminando un po’ di brezza marina dona sollievo. La sera, fa caldo come se fosse mezzogiorno, famiglie intere soggiornano per strada trasportando le brandine fuori dalle abitazioni. La luna c’è sempre in Africa, ed insieme alle stelle, ci fanno sentire dei re Magi abissini, dei Baldassarre d’altri tempi.

Molte donne portano tatuaggi a croce sula fronte, belle e colme di dignitosa eleganza. Il loro look è un eccentrico miscuglio tra abiti arabeggianti, drappi africani in cotone grezzo e shaari indiani. I gioielli risplendono sulla loro pelle color corteccia, denti bianchissimi e sempre in mostra, e capelli corvini decorati in trecce che corrono simmetriche lungo la testa. Ci sono diversi gruppi etnici, i Bilen, i Rashida, gli Afar e tanti altri. Che belle, sono davvero belle.  Alcune di loro indossano lo ‘zubtu’ un grosso e pesante anello in ottone. I loro fisici longilinei, le loro movenze lente ed aggraziate conferiscono loro un’aurea salomonica. Tzobektì, belle. Si torna di nuovo in albergo, uno sguardo al mare dove la carcassa della corazzata, immobile, si adagia in attesa di trasformarsi in un mega condominio per pesci tropicali.

Il giorno seguente, noi, Elisa e Tommaso, decidiamo di esplorare la costa. Unica traccia di stabilimento turistico/balneare in tutta la costa eritrea è Gurgussum, e dista da Taulud circa 20 minuti. Strada sterrata, non traccia di vita umana, nemmeno nei pressi della baraccopoli arroventata dai 57 gradi afosi che incendiano l’aria. Gurgussum dista poche miglia delle Grandi Dahalak, il paradiso incontaminato per eccellenza, dove tartarughe giganti nuotano in un mare dipinto. All’ingresso un grosso soppalco in legno con tetto in foglie di paglia, accoglie i villeggianti; ci sono ombrelloni e qualche bungalow simile alle case tipiche del posto, i tukul. La bassa marea alle otto del mattino è parecchio distante dalla spiaggia, ad almeno un chilometro. Cani e cammelli si riposano beatamente cercando di togliersi la torrida notte dalla pelle, in pozze d’acqua lasciate dal mare. Ragazzini si aggirano vendendo collanine fatte con minuscole conchiglie bianche, simpatiche. Elisa e Tommaso staranno con noi solo qualche ora dopodiché torneranno a Massawa per rientrare poi ad Asmara. Il mare sembra davvero piacevole in quel punto, unico neo il fatto che per stare in acque fresche bisogna allontanarsi, altrimenti, a riva ci si sottopone a lenta lessatura. Prima di partire, abbiamo acquistato in fretta e furia due maschere, che, a causa del poco tempo a disposizione, ci ha fatto sorvolare sulle dimensioni davvero troppo small per le nostre zucche.

Ma la calura e l’irritazione hanno un po’ ostacolato l’indossatura, precludendoci l’esplorazione dei fondali corallini, scoperti solo quando ci apprestavamo a risalire. Insomma, il pomeriggio dopo i convenevoli saluti con gli amici italiani in partenza, abbiamo conosciuto altri italo-eritrei in loco per un matrimonio. Hanno cercato di convincermi ad esplorare le meravigliose Grandi Dahalk, oltre Green Island, ma l’eccessivo costo, la notte da trascorrere in barca e la mancanza di tempo (dovevamo visitare ancora Keren, Adulis e Debre Bizen) han fatto si che rinunciassimo alla nottata. Il quel torrido pomeriggio avremo bevuto qualcosa come quattro o cinque litri d’acqua. Delle mongolfiere zavorrate. Tramonto incantevole, luci calde che si fondono in perfetto contrasto tra colori complementari quale il blu cobalto del mare e il fluorescente l’arancio del sole. Il mare si tinge di un colore indescrivibile. Rosso, ecco a noi spiegata la scelta di questo nome dallo storico greco Manetone, il Talassos Erythreum, il Mar Rosso. Massawa sembra sempre più assopita, svenuta e per nulla pronta a svegliarsi. Girando attraverso le rovine della biblioteca civica, compriamo fazzoletti i e chewingum da una signora cieca. Bambinetti sorridenti giocano con una ruota di bicicletta e un bastone, proprio come facevano i nostri genitori alla loro età. Ci sorridono e si aspettano qualcosa senza chiederlo, a quel punto decidiamo di farli felici, facendo loro promettere reciprocamente che l’avrebbero usata tutti. Regaliamo a loro le maschere coi boccagli, occhialini e cappello, più un paio di bracciali. I loro occhi colmi di gratitudine lampeggiano come fanali nelle foto fatte tutti insieme al crepuscolo. Ultima cena al C.H., in riva al mare, lume di candela e qualche zampirone. Qui di nuovo incontriamo Dea, la bellissima mamma eritrea che vive a Milano, coi suoi due figli. Chiacchieriamo molto, trascorriamo una piacevole serata, tutti insieme.

Ultimo sguardo notturno a Massawa, alla sua esotica mezzaluna ‘berhai’, nella cui lingua locale, ha assonanza con ‘beheran’, la luce (stranamente non con ‘sole’ che di dice ‘tzehai’). Chissà se ti rivedremo mai più nella nostra vita. Solito roboante rumore nelle orecchie, doccia pre nanna per aiutare il corpo ad assumere una temperatura più consona al riposo.

Il giorno seguente si parte, di nuovo al parcheggio sterrato, dove il Cessna diroccato sembra attendere da tempi immemori qualcuno da trasportare. Saliamo sul bus, insieme alla famiglia di Dea. Osservo i suoi figli, sui dodici anni o poco meno e mi immedesimo in loro, così europeizzati e senza traccia alcuna delle loro origini. Io fossi stato in loro, sarei stato un museo vivente di orpelli in ottone di argento, corde, sandali in caucciù e foutas. Si parte. Si arriva. Tutto in salita. Lasciamo i 60 gradi per giungere nel pomeriggio ai soliti dodici di massima. Torniamo al Pisa Pension e stavolta le camere sono davvero assurde. Quella in fronte chiesa (proprio come a casa dei miei genitori) è caruccia, mentre l’altra camera, davvero non-sense, è grande quanto una sala cinema, 50 metri quadrati di vuoto pneumatico, che trasformano ogni piccolo rumore in un echeggiante tonfo, ed un piccolo balcone sul retro, dove sistemo le piante.

Posati gli zaini, usciamo. Pioviggina, una toccata e fuga al mercato, dove Pinna, preso da shoppinite acuta acquista chili e chili di berberé piccantissimo, da donne che al mercato lo macinano (peperoncino purissimo) a mano senza protezione alcuna, trasportandolo seco come se fosse pericolosissima antrace. Pranziamo al Spaghetti e Pizza House, una sorta di taverna valtellinese in cui si possono ordinare dalle lasagne alla pizza, senza accorgersi di essere in Africa! Andiamo all’ufficio telefonico municipale, poco prima del Teatro dell’Opera (stupendo edificio neo-classic-gotico) per telefonata a babbo e mamma. Mentre stiamo per uscire inizia il solito diluvio delle diciassette; Pinna si mette a correre in direzione dell’albergo, io lo inseguo come se stesse per succedere un cataclisma. A metà strada lancia un urlo lancinante, si blocca e come un segugio da caccia ritorna di corsa verso l’ufficio telefonico’ dimenticandosi della mia presenza (che lo osservo basito), aveva dimenticato il berberé. Lì, il custode di questo affollatissimo centro telefonico lo aveva messo da parte, e quando lo ha visto tornare, dopo qualche domanda, ha restituito i pacchi. Necessita un ultimo cambio valuta. Dopo una sosta di qualche minuto in attesa del custode del centro cambi Himbol, gettiamo la spugna. Altro giro, in attesa che torni il funzionario. Acquistiamo al mercato pentole in terracotta nere, molto belle e dei porta-incensi. Torniamo ad Himbol dopo circa un’ora, ma del funzionario nessuna traccia. Ansia da carenza di pecunia. Sono quasi le sette e finalmente il funzionario si palesa. L’unico pos di uno pseudo bancomat in tutta la nazione (incredibile) è tenuto sotto chiave, in una teca di plexiglas, non funziona, per cui, cerchiamo di racimolare euro da cambiare in nakfa. Il tizio ci invita a tornare domani. Auguri.

Ceniamo in un ottimo ristorante eritreo, in una piccola via traversa alla Harnett Avenue. Caffè serale al bar Vittoria e poi, finalmente nanna. L’indomani, vogliamo visitare Keren, per cui di buona lena ci dirigiamo all’ufficio del turismo che stranamente ci dice di tornare dopo circa un’ora per avere visto e permesso di uscita. È venerdì e a Keren c’è un famosissimo mercato di cammelli che si svolge nel letto sabbioso di un fiume asciutto, colmo di mercanti sudanesi. Imperdibile! Prendiamo un caffè con brioches al Bar Impero, di mussoliniana fattura, all’aperto, per cui, al freddo. Si parte per Keren, con Yoannes, taxista eritreo molto alto e un po’ petulante. Il paesaggio tutt’intorno è stupendo, rocce enormi che sbucano da una verdissima zona collinare, disseminati intorno alcuni tukul ci ricordano che siamo in Africa. Questa zona fu scelta dagli italiani per il suo ottimo clima, come centro per la produzione di fiori e vino, e fu chiamato ‘Giardino degli italiani’. Dopo oltre due ore arriviamo a Keren, chiaramente disegnata da architetti futuristi che si sin divertiti a fondere stili e richieste stilistiche e un po’ politiche nello stile Sabaudia di Latina.

Scendiamo lungo il mercato in una strada scoscesa piena di negozi e banchetti che vendono cesti in paglia (presi; dopo la terracotta, la paglia è la mia seconda passione) stoffe e sarti che confezionano abiti, collane e oggetti vari. Un vero bel bel bel mercato! In direzione del fiume, un migliaio di mercanti vestiti con giallabyya e turbanti bianchi, recano cammelli e capretti. Non si capisce in realtà cosa facciano, perché tutti hanno cammelli e tutti sembrano venditori. Dopo qualche ora trascorsa tra queste creature in un paesaggio ‘marziano’, tornando a piedi verso la vettura, un anziano signore, vedendo che osservavo un’enorme barriera di piante di fichi, con un bastone ne stacca una foglia e me l’ha dona. Grazie! Tutt’intorno, enormi baobab incorniciano il paesaggio e proprio in uno di questi, divenuto un santuario mariano, una statua della vergine troneggia all’interno della corteccia, talmente grande da poter contenere tre persone insieme. Fu aggiunta la statua delle suore nel punto in cui giocavano gli orfani del convento, in un’area verde recintata, dall’aria disabitata, in cui una placida mucca bruca erbetta appena umettata dalla pioggia. Dopo aver pranzato in un bar che si affaccia sulla Giro Fiori, una rotatoria di littoria fattura, nel centro cittadino, torniamo in auto fino al mercato, dove un ultimo giro con sosta dinnanzi ad un negozio di argenteria (molto economica qui) mi consente di acquistare il mio oggetto dei desideri, il sukren. Pinna me ne regala una coppia, felicissimo io… Poi, per sua sorella acquista uno splendido bracciale, il cui venditore, insieme, ci regala un anello molto carino sempre in argento, da mignolo. Sulla strada del ritorno incrociamo asinelli in libertà e un piccolo gruppo di ciclisti in allenamento per il Giro di Eritrea, passione nazionale di stampo italico. Bye bye Keren!

Ad Asmara, rientrati verso le quindici, un nuovo compito attendeva di essere portato a termine. Il visto, per il di’ seguente, per Debre Bizen. Questo monastero, costruito nell’undicesimo secolo, si trova su un’altura a 2400 metri, raggiungibile solo a piedi dalla valle. Celato per secoli agli uomini, e completamente vietato a tutte le forme femminili, asine e galline comprese, è raggiungibile solo dopo un paio d’ore di salita. Il problema, come al solito è il visto, perché oltre a necessitare di quello statale, ci vuole anche quello ecclesiastico, ottenibile solo dopo aver ottenuto quello per l’uscita da Asmara. Per cui tappa all’Ufficio turistico, dove supplichiamo un’evasione della procedura un poco più solerte, (in quanto il di seguente sarebbe stato l’ultimo giorno utile per visitare il monastero). Il ragazzo gentilmente avvia le pratiche, un suo collega, gentilissimo, corre all’Ufficio del Governo per avere i timbri, alle sedici in punto abbiamo il lasciapassare. Non resta che correre contro il tempo al Ufficio Cultura della Chiesa Ortodossa di Eritrea, che chiude alle diciassette. Dopo dieci minuti di taxi, arriviamo al monastero in cui son siti gli uffici, qui uno scocciato e sonnolento pope ortodosso, vestito di abiti sdruciti ed un poco lerci, si atteggia a Patty Pravo, in movenze ibride tra lo ieratico e l’isterico. Habemus il visto! Serata tranquilla, cenetta a base di pizza e spaghetti alla solita taverna bergamasca. Ottima. Una volta in camera, dono alla signora addetta alle pulizie le mie scarpe da ginnastica e delle t-shirt, lei sorride.

Il giorno seguente un’altra avventura da annali si stava per compiere. Partenza alle otto e trenta in direzione Nefasit, dove un ragazzino ci attende, come se sapesse del nostro arrivo. Si chiama Tuia, magrissimo, alto e gentile. Ci racconta di essere orfano, e la cosa ci rattrista. Dopo qualche metro, un posto di blocco, lo passiamo, ed inizia la salita in questa giornata nebulosa. Una lapide con questa iscrizione avverte le gentili signore di desistere dalla scalata: ‘No permission to woman to go up’. Tuia come una capretta di montagna, si arrampica senza fatica, veloce e preciso nell’appoggiare i piedi sulle rocce (non ci cono strade o sentieri tracciati) tutto in salita, faticosamente verso il cielo. In lontananza si sentono urla scimmiesche provenire da chissà dove, e il ragazzo ci avverte che, i dispettosi babbuini sono soliti lanciare pungenti fichi d’India per mettere in fuga i turisti e racimolare qualche oggetto o cibaria dimenticata nella frettolosa fuga. Ci manca di essere impallinati dai babbuini. Tanta sete e fatica, neanche a metà strada vengo colto dallo sconforto. Mi scendono le lacrime, quelle vere della fatica. Voglio scendere, ma Tuia continua a dire ‘ten minutes’ e questa nenia è l’unico motivo che mi spinge a non abbandonarmi ai piedi ti un albero ed attendere la loro discesa (salvo poi scoprire che ten minutes era l’unico riferimento temporale che il ragazzo aveva appreso in lingua inglese). Di tanto in tanto si incontrano ragazzini con cesti di fichi, amici della guida, che chiedono acqua o semplicemente per scambiare due parole. Sorridenti creature nel nulla, alcuni giovani pastori come il biblico Isacco. Mi-viene-da-piangere. Vorrei urlare quella pazzia al mondo intero, liberarmi di quel faticoso fardello. Ad ogni passo, come se avessimo assunto del pejote, ripetiamo ‘Bizen, Bizen’ come incitamento al nostro personale Calvario. Finalmente, dopo circa due ore, sfiniti, il percorso roccioso assume un’aria un po’ più umana, le rocce diventano gradini e la salita si trasforma in una spianata. Siamo giunti in cima, il panorama è meraviglioso, si vedono le vallate circostanti. In cima al mondo. Varcato il recinto sacro, un gruppo di monaci con dei novizi, ci accolgono per l’abluzione dei piedi, un ristoro dopo quella salita! L’aria del luogo è davvero particolare, l’altitudine gioca la sua parte e le litanie che giungono dalla chiesa di Abu Pilippos, sembrano canti angelici. Ci fanno accomodare in una sorta di refettorio, siamo io, Pinna ed un ragazzo neozelandese con un sorriso equino a trentadue denti, biondo e non molto alto, ma con l’aria di aver compiuto quel percorso senza fatica alcuna. Dopo quella salita, uno vorrebbe solo dell’acqua, fresca, e all’ipotesi di sorseggiare una birra sembra di udire il verbo divino direttamente sul monte Sinai. La procedura di accoglienza vuole che i monaci accolgano i pellegrini con della focaccia azzima e dell’opaca birra locale, la seua, color pozzanghera, in cui galleggiano elementi primordiali tipo plancton. Davvero imbevibile, al primo sorso, proprio non c’è la si fa… Nemmeno il più incallito crucco in astenia riuscirebbe a farsene una ragione. L’impavido neozelandese si offe di bere anche le nostre. Coraggioso, lui, che tra l’altro decide di fermarsi anche la notte. Uno sguardo al cupo cielo e la nostra risposta arriva immediatamente, decliniamo, e ci prepariamo al ritorno. Molto più facile (ma non semplice), la discesa con il solo incubo che una pioggia tropicale possa coglierci all’improvviso rendendo il passaggio pericoloso. Un colpo di sole improvviso, ci concede una piccola tregua in quell’eroica discesa. Una piccola bimba di una bellezza ineguagliabile pascola il suo gregge di caprette oltre la lapide che vieta il passaggio al genere femminile all’area interdetta. A Nefasit salutiamo Tuia lasciando oltre al compenso pattuito, quanto più possiamo, insieme ad un braccialetto. Yoannis, il taxista ci attende per portarci prima a ristorarci in un angolo isolato del villaggio, per poi tornare ad Asmara. Sono quasi le sei di sera, siamo sfascenti, come mai bella vita. Il corpo lo si percepisce in due netti tronconi, la parte superiore, statica e annichilita, vive di vita propria, mente quella inferiore, continua ad agitarsi come se la salita non fosse mai terminata. Dopo una doccia usciamo per cenare. Al rientro, la gentile signora dell’albergo, mi pone le scarpe e la t-shirt lavate. Sembra una scena da presepe, le spiego che erano per suo figlio, il cui numero di scarpe e corporatura erano simili a me. Incontro il ragazzo della reception e facciam lui dono di un vecchio cellulare che avevamo portato apposta dall’Italia. Sono all’ultima pagina del libro di Erminia dell’Oro, fine libro, fine viaggio. Ultima alba all’Asmara. Risveglio, colazione da Rosina (che Pinna aveva da un po’ snobbato causa piccola incomprensione), santa messa in cattedrale, dove ad un tratto scoppio a piangere. La funzione è in inglese, ultima di tre celebrazioni consecutive della domenica, dopo il tigrino e l’italiano. Sono l’unico white skin nella cattedrale (Pinna non è voluto entrare e mi attende come una lucertola al sole sulla gradinata). Quella sensazione me la ricorderò per sempre. Un ultimo giro a Medber, per ritirare l’oggetto in zinco ordinato il primo giorno. Pinna acquista una kefya bordeaux e gialla. All’interno del mercato, desidero acquistare i sandali prodotti con i copertoni riciclati, gli Arambe, ed un signore mi indica dove trovarli.

In un capanno, un anziano signore che intaglia legno e confeziona sandali, insieme alla sua bellissima nipotina che gioca coi trucioli di legno, con un foulard giallo che gira intorno alla testa, ne trova un paio del mio numero, arrangiando solamente con qualche colpo di martello alcuni chiodini che fuoriescono. Passeggiando per le zone limitrofe, un piccolo mercato delle pulci, Pinna vede una bellissima bindella in pelle anni ’40 che vorrebbe acquistare per suo padre. Giriamo in direzione del palazzo del Governo per recarci alla Fiat Tagliero. Dopo essere entrati nell’Africa Pension per una visita, (restandone meravigliati per la bellezza di quell’albergo economico con mezzi busti eburnei di Ottaviano Augusto), lungo la strada, che costeggia l’ambasciata del Qatar, con piscina in costruzione, e un originale edificio in stile Lichtenstein, incontriamo una signora che parla italiano perfettamente, avrà sessant’anni ed è da poco rientrata in Eritrea dopo aver lavorato in Italia per molto tempo. Si lamenta dell’attuale presidente, che da eroe nazionale è diventato un carceriere, e ci racconta che l’acqua, bene abbondante in quelle terre in alcune stagioni dell’anno è un bene di lusso, come il cemento per ristrutturare le case, introvabile. La cara e un poco prolissa signora ci guida in direzione della Piscine comunali, vuote, di fattura eroico-fascista piene di mosaici. Di fronte un altro bellissimo edificio, il Cinema Roma. Da una villetta scorgo una signora intenta a far giardinaggio, e vedo che sta sistemando un’erbetta grassa che ricordo aveva anche mia nonna e che chiamava ‘barba dei fra’, le chiedo se posso averne un ciuffo, e lei me ne dona una manciata. Poco più in la, notiamo un cancello semiaperto, da cui proviene un profumo di injera, ebbene si, come esistono i panifici, esistono pure gli injerifici! Qualche metro in direzione del Monumento dei Sandali, Pinna scorge una cosa meravigliosa, un’enorme tartaruga gigante, in un cortile, le cui padrone, intente a sistemarsi le treccine, le donano banane ed insalata. Avrà certamente più di cent’anni, ne avrà viste delle belle. È stupendamente tenera centro al suo enorme carapace. Scopriamo con disappunto che il Monumento dei Sandali, orgoglio nazionale, non si trova più li, ma è stato spostato altrove, forse ad una fiera… Poco dopo sbuchiamo davanti all’edificio più fumido di Asmara, la Fiat Tagliero. È un ex-fabbrica di ciò che fu per anni l’orgoglio automobilistico italiano. Di forma simile ad un aereo, in una giornata limpida e soleggiata come quella di oggi, sembra voglia spiccare il volo. Uno stile futuristico modernista, particolare, simbolo di quello che fu per gli architetti italiani, quella colonia, un enorme foglio bianco su cui divertirsi con creazioni davvero originali. Sono le prime ore del pomeriggio, decidiamo per un’ultima volta di pranzare alla Casa degli Italiani, dove un signore con la pelle color cedro moooolto anziano e vestito con abiti europei (tanto di coppola e bastone) ci avvicina ed inizia a raccontarci di settant’anni or sono, come se raccontasse delle gesta dei re Axumiti. Racconta degli italiani, di quanto fosse ben organizzata la colonia e di come funzionasse bene, si rivolge a Vittorio Emanuele III chiamando lo ‘sua maestà’ e soprattutto come se fosse ancora vivo. Rabbrividisco, e quando gli raccontiamo della sua tomba ad Alessandria, si commuove come se recar visita a quel monarca fosse l’ultimo desiderio della sua vita. Il signore ci pone delle fotocopie in mano (rarità in quel paese) chiedendoci di leggerle al nostro ritorno in Italia; raccontano dell’occupazione di Assab, della Compagnia di Rubattino e dei primi flussi migratori, fino alla battaglia di Keren. Ringraziamo ed usciamo da quell’angolo incantato. Un gruppo di bimbi ci rincorre, quasi lo sapessero della nostra partenza. Pinna ha un’idea, tornare in albergo, prendere tutte le nostre cose e riportarle qui. In qualche modo facciamo loro capire di aspettarci, in circa venti minuti andiamo e torniamo, con noi magliette, calzoncini e ciabatte. Distribuiamo loro gli indumenti e i piccoli, senza nemmeno pensarci due volte, li indossano felicissimi sopra ai loro vestiti divelti e sdruciti. Sono allegri e saltellano come pulci da un angolo all’altro della strada. Il sole invita ad una passeggiata, in direzione Segeneyti street, una via snodata che sorge sul fiume (ormai coperto) Mai Belà. Questo fiume, ha una storia curiosa, significa ‘Acqua, grazie’ e sembrano essere le parole pronunciate da Belqis, la regina di Saba, di ritorno dalla visita a re Salomone, che si abbeverò in questo fiumiciattolo. Giungiamo a Ghezzabanda, un quartiere a sud, dove sorge una curiosa fontana a gradini (asciutta) incastrata negli edifici residenziali. Poco più a sud, una famosa gelateria ‘da Fortuna’ delizia i nostri palati offrendoci un gustoso gelato. Percorrendo Marsatekly St., in un negozietto di bevande, acquistiamo una bottiglietta di succo di amarena asmarino, con etichetta vintage. Raggiungiamo Enda Mariam, la cattedrale ortodossa, in uno stile tipicamente ibrido, su un piazzale sterrato, in cima ad una collinetta. Alle stalle un enorme parco di cactus e piante grasse, costellano, insieme ai molti orfanotrofi da cui provengono canti, il perimetro di questa cattedrale. Promettiamo che al ritorno, adotteremo un bimbo/a di quel fantastico paese. Promessa solenne. Giù per i vicoli dalle pareti sassose, passiamo dinnanzi alla moschea. In un negozio che vende scarpe in gomma, acquisto un paio di disneyani zoccolini in caucciù Made in Asmara, per Davide. Ultima tappa al mercato cittadino cercando di respirare il più possibile quell’atmosfera nebulosa che avvolge quella città. Acquistiamo un enorme e pesante tagliere in legno, un sotto pentola, un mestolo e Pinna, totally impazzito (a volte mi lascia a bocca aperta) un grande tappeto in paglia. Io che non voglio esser da meno, prendo un cesto diametro 80 centimetri. Per mamma un altarino luminoso con effige di Gesù e iscrizioni tigrine. Sulla strada del ritorno Pinna predo da un crampo di fame, prende un cono di giornale con dentro semi tostati; ai suoi piedi, un anziano signore vende una decina di anelli ad uso tipico matrimoniale, qualche bracciale e i famosi ciondoli chiamati ‘tehanaguit’, simili a dei rosoni dorati. Mi piacciono un sacco, decido di acquistar tutto, cambiando la giornata a questo signor anziano. Caro. Giro sul campanile della cattedrale centrale, con le sue campane in bronzo, vista mozzafiato sulla città. L’ultima ora prima dei bagagli e di cena la trascorriamo dal parrucchiere, voglio rifarmi le treccine, così da ritornare con l’Africa in testa. Mal d’Africa, lo sento bruciare dentro di me, come una brace che al vento si accende. Pisa Pension e doccia millesimale di acqua fredda, come un rito da dover consumare istante dopo istante. Vestizione e preparazione dei bagagli, terrore per quello che non arriverà integro e quello che non passerà al controllo (il berberé, ad esempio, non è possibile imbarcarlo perché è considerato pericoloso, ad uso terroristico). Controllo spasmodico ed ossessivo delle nakfa rimaste, perché al controllo in uscita, nessuna banconota può essere esportata e i cambi effettuati devono coincidere meticolosamente con le spese (per controllare anche gli eventuali cambi al mercato nero). Cena, lasagne e spaghetti, come se fossimo a Bologna. Passeggiata, ultima per Harnett Av., prima di salutare la sua festante gioventù. Nanna. Risveglio alle ventitré, saluti e abbracci, un taxi ci porta al International Airport in pochi minuti. Freddo e nebbia avvolgono l’aeroporto. Tutti in fila, un centinaio massimo di persone lungo la cancellata chiusa. Il personale che lavora sugli arrivi, sarà lo stesso che poi si sposterà alle partenze per espletare le rituali procedure per la nostra partenza. Molti eritrei in attesa andranno negli Stati Uniti, alcuni in Germania, pochissimi in Italia. Ingresso, controllo certificato di cambio, tachicardia, ma tutto torna. Controllo bagagli, ok. Siamo in attesa di partire di fronte ad un piccolo shop di artigianato locale, pelli animali decorate, incensi, bandierine e t-shirt. Ripensiamo al tempo trascorso, e a quanto usa stata folle la salita a Bizen, ridiamo. Amore di Eritrea. Grazie. Egypt Air ci chiama al checkpoint. Addio, seconda Italia.

 

Moyseion

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